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Il nuovo melodramma e la riforma del Metastasio - L'Opera buffa.

Alessandro Scarlatti e Domenico Scarlatti.

G.B. Pergolesi - N. Piccinni - G. Paisiello - D. Cimarosa.

Poeti e librettisti d'opera:

G.B. Lorenzi - F. Cerlone - N. Corvo - A. Palomba

La Commedia realistica: P. Trinchera.

 

Nel '700, la città di Napoli fu tanto più capace di riconoscersi in una dimensione teatrale quanto più seppe mostrarsi aperta ad ospitare le esperienze tutte della scena settecentesca ed a segnarle di una sua propria, singolare impronta. Che si faccia riferimento al melodramma ed agli intermezzi, all'opera buffa e alla danza, al teatro di prosa, in lingua e in dialetto, alla farsa popolare o ai commedianti dell'arte; oppure che si tratti di scenografia o di scenotecnica, di musicisti o librettisti, di capocomici o di "metteurs-en-scè ne", di impresari o di attori e cantanti, di tipologia dello spettacolo popolare o di maschere, marionette e burattini; o ancora, ofondiscano rspetti e caratteristiche di culture che si fanno immagine, parole, suono e azione scenica, o di spettatori diversamente partecipi di questo inveramento, non può prescindersi dal fenomeno teatrale settecentesco napoletano, singolarmente pregnante e rilevante nell'ambito dell'evoluzione della scena nazionale.

Infatti, come scrive Franco Carmelo Greco, nel suo volume dedicato al "Teatro napoletano del '700": "la Napoli teatrale settecentesca, tra melodramma barocco, Zeno e Metastasio, tra Metastasio, Ranieri de' Calzabigi, e Da Ponte; attraverso San Bartolomeo, Fiorentini, San Carlo, Nuovo e Fondo, visse tutta l'esperienza melodrammatica settecentesca nei suoi diversi aspetti: quello scenico e spettacolare, affidato all'opera di scenografi quali Francesco Bibiena, Juvarra, Righini, Re, Joli, Vanvitelli ecc; quello musicale, con una ricchissima teoria di compositori impossibili da elencare al completo: da Scarlatti a Piccinni, da Cimarosa a Sarro, Paisiello, Gluck, ecc; quello artistico-canoro, con la schiera degli evirati e delle canterine, virtuosi e virtuose che girarono per l'Europa intera, ricchi di fama e prestigio: Grimaldi, Benti, Bulgarelli, Farinelli, Tesi Tramontini, ecc; e quello della danza, con i vari coreografi e danzatori, talvolta teorici di rilevante importanza: dal Grossatesta al Magri a Gaetano Gioia ecc".

Tuttavia, la realtà teatrale napoletana non si rassegnava a specchiarsi nel melodramma, seguendone e scandendone un'evoluzione di respiro europeo; nè a riflettere, in esso, con chiusure ed aperture più o meno produttive verso generi quali tragedia e dramma, momenti diversi della coscienza tragica del reale e dell'esistenza, o ancora della coscienza sociale, vivendo, peraltro, la contraddizione implicita in tale esperienza melodrammatica che, incapace di nutrirsi della vita reale, ne esaltava gli aspetti più esteriori e ottimisti, fino a giungere ad una facile riduzione del tragico a schema e del drammatico a sentimentalismo. Per cui, quella stessa scena napoletana coltivò l'ambizione di praticare vie diverse, meno aristocratiche ed europee ma più sicure ed autonome, nelle quali caratterizzarsi culturalmente. Questa via era costituita dalla pratica del comico, dilettantesco e professionistico, premeditato ed all'improvviso, dialettale ed in lingua, comunque autoctono, che si definisse come coscienza aperta del reale ed esorcismo, insieme, del diverso sociale e teatrale.

Proprio da ciò , prendono le mosse sia l'avventura esaltante dell'Opera Buffa, sia l'esperienza del teatro borghese comico, con la commedia popolare realistica, quasi sempre solo dialettale; come pure, sia l'attività di "metteurs-en-scè ne", capocomici, e attori dilettanti, sia l'attività dei commedianti dell'arte, dalla metà del secolo in poi divenuta lo stabile fondamento su cui si costruiranno le fortune a venire dei Giancola, Altavilla, Petito, Scarpetta, ecc.

Il nuovo melodramma e la riforma del Metastasio. In generale, l'opera del settecento si differenzia da quella barocca, innanzitutto per gli spettacoli più essenziali dal punto di vista scenico. Il melodramma tende a presentarsi come una successione di arie inframmezzate da recitativi, con qualche coro e pezzo di insieme; di ascendenza aristocratica e largamente permeato di idee illuministiche, porta sulle scene valori astratti e virtù incarnati in personaggi fortemente idealizzati: la clemenza, il perdono, l'amor patrio, la rinuncia, la generosità . Allo spettatore, il melodramma settecentesco - sulla scia dell'imperante neoclassicismo- offre modelli eroici tratti di preferenza dalla storia antica. Dal punto di vista musicale, trionfa il virtuosismo canoro portato all'estremo. Figura astratta e idealizzata, al pari dei personaggi che interpreta, il cantante - spesso un castrato- è il vero autocrate dell'opera, e la scrittura dei compositori diventa, spesso, uno schema di base, dal quale il cantante parte per un'esecuzione virtuosistica, sempre più elaborata.

Per quel che concerne la riforma del Metastasio - che a Napoli ottenne i suoi primi successi, intrecciando anche una lunga relazione amorosa con una delle più importanti cantanti dell'epoca, Marianna Bulgarelli, detta "la Romanina"- va detto che al centro delle sue riflessioni sul teatro, agisce l'esigenza di nobilitare e semplificare il genere melodrammatico, senza intaccarne le due componenti essenziali: la musicalità e la finzione favolosa. Dotato di un istintivo senso del mèlos, Metastasio imposta, con estrema lucidità , il rapporto tra parola e musica intuendo che, per ridare autonomia alla prima, bisogna far scaturire la vibrazione melodica dall'interno del tessuto poetico: di qui la levità aerea della versificazione e il meccanismo preciso che regola l'azione. Quanto al favoloso, esso viene recuperato all'immaginazione arcadica attraverso un procedimento di alleggerimento e rarefazione; mentre i nuclei sentimentali che sostengono l'intreccio sono graduati in una gamma di emozioni morbide e ambigue. In conclusione, il nuovo melodramma eredita, da quello barocco, tutti gli artifici, le agnizioni, le inverosimiglianze, eppure, tutto ora assume un'apparenza di naturalezza perchè, proprio nei momenti in cui la favola si fa più ardita e improbabile, s'insinua la coscienza dell'illusione e della finzione.

L'Opera buffa. Nata, come mostrò convincentemente Prota Giurleo, dalla fusione di elementi diversi, quali la "cantata a llengua napoletana" e "gli scherzi drammatici e scenici", che si recitavano e cantavano in Napoli ai primi del Settecento, ma anche dalle parti buffe e dialettali, presenti in opere serie, nonchè dal vasto repertorio comico-musicale degli istrioni, come indica N. Pirrotta ne "Li due Orfei"; favorita, nella sua ricerca di identità e compagine teatrale autonoma, dalla esclusione di quelle parti comiche dal contesto melodrammatico togato; definita, nella sua caratterizzazione sociale e culturale, oltre che scenica, dal parallelo e progressivo acquisto di autonomia espressiva dell'intermezzo -diverso per concezione, struttura, e funzione- e dalla istituzionalizzata contrapposizione al melodramma aulico di tipo barocco: l'Opera buffa rappresenta, certo, il più noto fenomeno settecentesco napoletano.

"La questione dell'Opera buffa", scrive ancora Greco, "è rappresentata dal contesto nel quale essa nacque, e dalle caratterizzazioni che ne derivò , capaci, sin dall'origine, di mediare diverse realtà di natura culturale, sociale e teatrale, all'interno delle quali è da ricercarsi la sua dimensione ideologica, la sua funzione propositiva e programmatica, la sua specificità drammaturgica".

Ebbene, nacque questo nuovo genere in case private, in ambienti intellettualmente qualificati, misti di nobiltà e borghesia; e l'importanza di tale avvenimento sta nel fatto che testimonia di un capovolgimento in atto nel rapporto tra l'intellettuale- letterato, appartenente alla cultura ufficiale e dominante, e il mondo popolare e subalterno, rintracciabile nella stessa struttura, formale e concettuale, dell'Opera buffa. Difatti, venendo alla luce in un momento di crisi dello spettacolo pubblico cittadino, soprattutto colto, sia musicale che in prosa, l'Opera buffa si legò alle esperienze sceniche più significativamente vive negli ambienti della borghesia intellettuale, affidandosi ad una scelta drammaturgico-linguistica, musicale e rappresentativa, che affondava le sue radici in un'esigenza culturale e ideologica, non tanto nuova, ma certamente coerente e produttiva. Di qui, la natura composita della sua scrittura musicale e letteraria, nella quale comparivano - come abbiamo già notato in precedenza- accostati e fusi, elementi esemplari della cultura ufficiale e della cultura popolare.

La Commedia realistica o di costume. Quando la Commedia dell'Arte, per l'esaurirsi dell'inventiva e la ripetizione dei vecchi schemi e lazzi, aveva già cominciato a decadere; quando i comici spagnoli e le loro commedie diventarono sempre meno graditi; quando si cominciò ad averne abbastanza della drammatica classicheggiante o del rifacimento cinquecentesco, che fino ad allora aveva dominato sotto vari aspetti, non solo nei teatri ma anche nelle case dei nobili, nei collegi e nei monasteri: sorse, ai principi del '700, la commedia popolare realistica, parallelamente al nascere dell'Opera buffa.

Alla comune scelta espressiva - sul piano drammaturgico-linguistico e dell'azione scenica, perchè la musica non era un tratto distintivo della commedia- ed alle motivazioni comuni dei due generi, fa da contraltare una diversa pratica scenica, in virtù della quale essi sono costretti a differenziarsi, soprattutto per ragioni di praticabilità , essendo diverse le necessità di allestimento dell'Opera buffa, con scene, cantanti ed orchestrali, rispetto alla commedia di costume - o realistica- cui non si imponeva necessariamente l'uso di spazi deputati e delle loro attrezzature: cosa che, comprensibilmente, comportava una sostanziale differenza anche nei costi dell'allestimento, essendo l'Opera molto più dispendiosa.

Or bene, il motivo per cui venne affermandosi la commedia realistica risiede nel fatto che, stufi del tronfio e vacuo retoricume, i signori napoletani vollero veder riprodotta sulla scena la vita vera ed attuale, la realtà di ogni giorno. Nè si poteva, in conseguenza di ciò , prescindere dalla partecipazione, a questo genere di spettacoli, dei ceti popolari o più prossimi al popolo. Ad accorciare ancor di più le distanze formali tra nobiltà e popolo e ad avvicinare i nobili al teatro, era quanto mai efficace l'attrattiva sessuale esercitata dalle comiche e dalle canterine sugli aristocratici napoletani, giovani e vecchi. Intanto, un nuovo ceto sociale si andava formando, che non era più la vecchia aristocrazia - impoverita e declassata- pur tuttavia non era ancora la borghesia. In questo ceto, avevano particolare peso magistrati, avvocati, notai; nutriti di studi umanistici, ma a frequente contatto col popolo, non pochi fra essi amano il teatro e costituiscono accademie, nelle quali si recita come nelle case dei signori: nobili e intellettuali non disdegnano di recitare, di metter maschera, di travestirsi da donna. Da queste accademie e da questi filodrammatici partirà lo sforzo di liberarsi di tutto il ciarpame retorico ed enfatico, mirabolante e macchinoso, eredità del teatro cortigiano, e di riprodurre, nella vivezza del dialetto, gli ambienti e i costumi di Napoli. Il Lavinaro, il Mercato, la spiaggia di Chiaia, fanno la loro apparizione nelle commedie, con le chiassose popolane, con vocianti venditori, con i marinai ed i pescatori, senza esclusione di quei tipi del ceto medio, cui gli stessi autori appartengono.

Le figure artistiche che più di tutte hanno condizionato il settecento teatrale napoletano furono, in campo musicale, certamente Alessandro e Domenico Scarlatti, Giambattista Pergolesi, Niccolò Piccinni, Giovanni Paisiello e Domenico Cimarosa. Per quanto riguarda, invece, i poeti e i librettisti, vanno citati almeno il commediografo Pietro Trinchera - che, comunque, fu anche autore di libretti d'opera, come pure il Cerlone-; e poi i librettisti Giovan Battista Lorenzi, il già citato Francesco Cerlone, Antonio Palomba, e Nicola Corvo -o meglio, Agasippo Mercotellis. Qui di seguito, proponiamo una rapida sintesi, cominciando dai musicisti.

Alessandro Scarlatti (Palermo 1660-Napoli 1725). Iniziò l'attività di compositore, a quanto risulta, nel 1679, facendo rappresentare, a Roma, la sua prima opera, Gli equivoci nel sembiante, cui seguì un'attività prodigiosa e senza soste. Dopo essere stato al servizio di Cristina di Svezia, nel 1684 si stabilì a Napoli, come maestro di cappella reale. A Napoli fu attivo fino al 1702, producendo ben 35 melodrammi e un'infinità di brani d'occasione. A Roma, dove venne subito assunto come vicemaestro di cappella in Santa Maria Maggiore, fu ammesso, nel 1706, fra i membri dell'Accademia dell'Arcadia. Dal 1721, prese definitiva dimora a Napoli, praticamente inattivo come compositore e, nonostante il prestigio di cui godeva, tagliato fuori dalle nuove correnti musicali.

Tra i massimi esponenti della "Scuola napoletana", Alessandro Scarlatti dominò magistralmente il melodramma e la cantata da camera, nel momento della loro massima espansione, lasciando anche una traccia profonda nella musica sacra e nella musica strumentale. Nella cantata, A. Scarlatti fu autore insuperabile, al punto che fornì grandi esempi anche a Handel e a Bach

Domenico Scarlatti (Napoli 1685-Madrid 1757). Compositore. Sestogenito di Alessandro, dopo i primi studi compiuti sotto la guida del padre ebbe, nel 1701, la nomina a organista e compositore di musica della Real cappella di Napoli ed esordì in campo teatrale, nel 1703, con L'Ottavia ristituita al trono e con il Giustino. A Venezia, completò gli studi sotto la guida di F. Gasparini e conobbe Vivaldi e Händel. Maestro di cappella della regina Maria Casimira di Polonia a Roma, tra il 1709 e il 1714, allestì vari melodrammi; nel 1713, fu nominato coadiutore in S.Pietro e, l'anno dopo, ottenne il posto di maestro di cappella, che conservò fino all'estate del 1719. Nel 1720 lo troviamo a Lisbona, al servizio di Giovanni V. Qui, abbandonato il teatro, fu essenzialmente compositore di musica sacra, per cerimonie e occasioni varie; nel 1733 fu a Madrid; nel 1738, pubblicò , a Londra, la raccolta dei 30 Essercizi per gravicembalo; mentre, nel 1746, divenne "Maestro dei re cattolici". L'ultima composizione datata, di cui si abbia conoscenza, è una gran pagina di musica sacra, il Salve Regina del 1756; ma, in questo campo, bisognerebbe citare anche la Messa del 1754, lo Stabat Mater e i salmi.

Se di notevole rilievo fu la sua produzione vocale, la fama di D. Scarlatti è affidata soprattutto alla musica per clavicembalo, nella quale si affermò come vero e proprio creatore di uno stile. Il corpus delle sonate pervenute conta 555 composizioni.

Giovan Battista Pergolesi (Jesi 1710-Pozzuoli 1736). Compositore. Figlio di un agronomo al servizio di un architetto militare, potè studiare, grazie all'aiuto di alcuni nobili di Jesi, prima nella città natale e poi nel conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo, a Napoli; qui fu allievo del Durante. Nel 1731, presentò il dramma sacro La conversione di San Guglielmo d'Aquitania; lo stesso anno esordì in teatro con Salustia, ma l'esito fu poco felice. Grande successo ebbe, invece, la sua prima Opera buffa, Lo frate 'nnammorato. Nel 1733, presentò , al teatro San Bartolomeo, Il prigionier superbo, i cui intermezzi, col titolo La serva padrona, ottennero un vero trionfo ed ebbero subito vita autonoma, al di fuori del dramma cui erano destinati. Dopo una breve parentesi romana, a Napoli ottenne il posto di organista soprannumerario della cappella regia. La morte lo colse giovanissimo, a ventisei anni, presso il convento dei frati cappuccini di Pozzuoli, dove si era ritirato per curarsi dalla tisi.

La fama quasi leggendaria di Pergolesi è legata, soprattutto, a La serva padrona, e si diffuse, in tutta Europa, a partire dall'esecuzione parigina del 1752, che scatenò la "querelle des buffons" fra i sostenitori dell'opera francese, rappresentati da Rameau, e i filoitaliani, rappresentati dagli enciclopedisti.

Niccolò Piccinni (Bari 1728 - Passy Parigi1800). Compositore. Dopo gli studi compiuti al conservatorio Sant'Onofrio di Napoli, nel 1754 vi fece rappresentare la sua prima opera, Le donne dispettose, con notevole successo, tanto da conquistare, in pochi anni, nella capitale partenopea, una posizione di primo piano. Nel 1760, con la rappresentazione a Roma della Cecchina, ossia la buona figliola  - libretto di Carlo Goldoni - si impose clamorosamente al pubblico italiano ed europeo. Trasferitosi a Parigi per contrastare il crescente successo del Gluck, nel 1789, allo scoppio della rivoluzione, fece ritorno a Napoli, dove però passò quattro anni in prigione, con l'accusa di giacobinismo. Nel 1798, tornato a Parigi, in un clima decisamente più favorevole fu ritenuto il massimo esponente dell'opera napoletana del periodo antecedente all'arrivo di Paisiello. Il suo capolavoro rimane la "Cecchina", opera di garbato umorismo, grande freschezza e delicata poesia. Lasciò in tutto circa 120 opere: sinfonie, ouvertures, messe e musica sacra, e brani per clavicembalo.

Giovanni Paisiello (Taranto 1740-Napoli 1816). Compositore. Anche lui, come Piccinni, studiò al conservatorio di Sant'Onofrio a Napoli e fu allievo di Francesco Durante. Iniziò , nel 1764 a Bologna, l'attività teatrale con Il Ciarlone, adottando, subito dopo, i libretti di Metastasio e Goldoni. Nel 1776, dopo il successo napoletano delle opere comiche La frascatana e Socrate Immaginario - quest'ultimo su libretto di G.B. Lorenzi- fu chiamato a Pietroburgo da Caterina di Russia, dove prese il posto, che era stato di Traetta, di maestro di cappella; fu qui che Paisiello, nel 1781, compose la sua "Serva padrona", 50 anni dopo quella di Pergolesi, e Il barbiere di Siviglia. Lasciò la Russia nel 1784, in seguito ai disordini politici, ma anche a causa della malattia della moglie. Nel 1789, diede, alla reggia di Caserta, Nina pazza per amore, una delle sue opere più belle e forse quella, ancor'oggi, più rappresentata. Tramontata l'era napoleonica, a causa della sua adesione alla Repubblica napoletana del 1799, i Borbone lo privarono di ogni carica musicale. Paisiello ci ha lasciato un centinaio di opere, alcune delle quali autentici capolavori, nel solco della tradizione della Scuola Napoletana.

Domenico Cimarosa (Aversa 1749-Venezia 1801). Compositore. Studiò al conservatorio di Loreto e si formò nell'ambiente del melodramma napoletano di Piccinni, Paisiello, Insanguine. Del 1779 è il suo primo capolavoro di successo, l'intermezzo L'italiana in Londra, rappresentato a Roma e replicato, l'anno seguente, alla Scala di Milano. Da quel momento, Cimarosa fu in relazione con i maggiori centri italiani: Roma, Genova, Milano, Firenze, Torino. Nel 1787, come già Paisiello prima di lui, partì per Pietroburgo, attratto dalla fortuna che il teatro italiano godeva presso Caterina II. L'assenza di notizie sul suo soggiorno pietroburghese, però , fa sospettare uno scarso successo. Quindi, nel 1791, era già sulla via del ritorno e, di tappa a Vienna, compose il suo capolavoro: Il matrimonio segreto. Coinvolto negli eventi politici che determinarono la Rivoluzione napoletana del 1799, il compositore subì , nel 1800, quattro mesi di carcere, durante la reazione di Ferdinando IV. Presumibilmente, anche in seguito a quest'episodio, ci fu il primo manifestarsi dei disturbi nervosi che lo avrebbero portato alla morte, insieme ad un carcinoma, all'inizio del 1801. Cimarosa fu compositore fecondissimo: scrisse almeno 70 melodrammi, numerosissime musiche sacre e profane e molta musica strumentale, tra cui 81 sonate per forte-piano.

Dopo i musicisti, un breve sguardo a poeti e librettisti d'opera.

G.B. Lorenzi (Napoli 1721-1807). Librettista. Regio revisore delle opere teatrali a Napoli, fece parte di un gruppo di letterati che intendevano rinnovare l'opera comica napoletana, fino ad allora imperniata solo sull'elemento farsesco e popolareggiante. Da giovane, fu attore del teatrino di casa del duca Maddaloni, poi cominciò a comporre commedie e libretti per teatrini privati, finchè, dopo la morte del Liveri, andò a far parte della compagnia del Teatro di Corte di Napoli, di cui, in seguito, fu direttore, concertatore e autore. Scrisse circa trenta libretti di opere buffe, tutti concettosi ed apprezzati dalla critica e dal pubblico, alcuni dei quali musicati da Cimarosa e da Paisiello. E proprio con musiche di Paisiello, si ricordano Nina pazza per amore -ancora oggi, tra le più rappresentate- e Socrate immaginario, che il Lorenzi scrisse, pare, in collaborazione con l'Abate Galiani, anche se non tutti gli studiosi concordano su questa collaborazione. Ad ogni modo, nel Socrate, con effetti assai vivi nello scontro di lingua e dialetto, Lorenzi mette in ridicolo la mania filosofica e grecheggiante del secolo, avendo di mira, in particolare, la figura del compositore Stanislao Mattei.

Francesco Cerlone (Napoli 1722-1812). La data di nascita è ripresa da Il Teatro di Corte, di Ulisse-Prota Giurleo. Altri, portano il 1730 ca. Commediografo e librettista. Di mestiere ricamatore, fu uno dei più fecondi e popolari autori di commedie e di opere buffe che, stampate in 24 volumi, furono ristampate più volte fino al 1829. Musicarono i suoi libretti compositori famosi, quali: Giacomo Tritto, Giacomo Insanguine, Giovanni Paisiello, Domenico Cimarosa. Le sue commedie, contese dagli impresari dei teatri di Napoli e di fuori, tenevano cartello per lunghi periodi, facendo segnare il "tutto esaurito" a quelli che oggi si chiamano botteghini. Semplici, pregnanti, teatralissime, deliziarono gli spettatori del suo tempo e furono rappresentate fino a tutto l'800. Ciononostatnte, il Cerlone non ebbe sempre critiche favorevoli dai suoi contemporanei.

Niccolò Corvo o Agasippo Mercotellis. (Napoli tra il XVII e il XVIII sec.) Mercotellis Agasippo, secondo lo Scherillo anagramma di Giaseppo Martoscelli; più convincente, però , appare la congettura di Benedetto Croce, che lo identifica nel giureconsulto e poeta dialettale, Nicola Corvo. Comunque, si tratta dell'autore del libretto Patrò Calienno de la costa, famosa commedia, considerata la prima opera buffa che sia mai stata rappresentata in teatro; anche se, in precedenza, si erano avuti dei tentativi in alcuni teatrini di case private. L'opera fu rappresentata, al Fiorentini di Napoli, nel 1709. Musicata da Antonio Orefice, ebbe un successo clamoroso, segnando l'inizio di quel nuovo genere di commedia che va sotto il nome di opera buffa, nonchè la ripresa di un teatro che languiva da anni.

Antonio Palomba (Torre del Greco 1705-Napoli 1764). Librettista. Come il Trinchera, era notaio, e come il Trinchera e il Cerlone, fu autore fecondissimo di libretti di opere buffe. Lo Scherillo non attribuisce, al Palomba, "nessuna importanza nella storia del teatro buffo napoletano", definendolo uno scribacchino; invece, il Napoli-Signorelli afferma che ne scrisse "più centinaia", fra quelle pubblicate a suo nome, con altri nomi, o addirittura anonime. Fu concertatore del teatro della Pace e morì nell'epidemia del 1764.

Pietro Trinchera (Napoli 1702-1755). Commediografo e librettista. Ma non solo: fu notaio e impresario; personalità suggestiva per la sua vita agitata e la sua fine drammatica: si suicidò in carcere. è da considerare, senza dubbio, il maggior commediografo del tempo. Il suo primo lavoro teatrale fu la Moneca fauza, scritta nel 1726 col sottotitolo La forza de lo sango. Seguirono altri lavori teatrali, come La gnoccolara, del 1733, e Notà Pettolone, del 1738. Ma la sua prolificità artistica non si arrestò con questi pochi testi teatrali. Nella sua ricca produzione, infatti, troviamo oltre 40 libretti per le musiche di valenti autori come: Calandro, Cecere, Conforti, Gomez, Latilla, Porpora e Carasale. Il comun denominatore delle opere del Trinchera è , senz'altro, l'audacia, nonchè l'ironia e la sagacia, con le quali attaccava le istituzioni politiche e l'ipocrisia religiosa. Fu proprio l'audacia de La Tavernola abentorosa, firmata con lo pseudonimo di Terenzio Chirrap, che gli costò , nel 1741, la fuga precipitosa dal monastero di Monte Oliveto, dov'era stata data la prima dell'opera, e che lo tenne lontano per circa un anno. Ritornato a Napoli, divenne impresario del teatro Della Pace, prima, e poi, dal 1747 al 1755, del teatro Dei Fiorentini. I suoi scritti satirici, mordaci, e le conseguenti offese alla chiesa, come afferma Scherillo; o i suoi dissesti finanziari, a detta di Benedetto Croce, gli costarono, nel 1755, la fuga nella chiesa di S. Maria del Carmine, nella quale fu poi arrestato e, da lì , tradotto nelle carceri del Ponte di Tappia dove, la sera del 10 febbraio, in preda allo sconforto e alla paura, si tagliò l'addome con un coccio di piatto.