L'opera del sorriso Primi esperimenti
Gli intermezzi e la farsa
L'opera buffa, primo atto
Gloria e Tramonto
L'opera del sorriso
Napoli,
crocevia
musicale
tra
Italia e
Spagna
Nonostante
la
tradizione
fissi la
nascita
dell’opera
buffa
nei
primi
decenni
del
Settecento,
i primi
esperimenti
di
commedia
in
musica
sono
rintracciabili
già
nella
produzione
operistica
seria
del
secolo
precedente.
Si può
affermare
infatti
che un
primo
impulso
allo
sviluppo
del
genere
comico
all’interno
del
repertorio
operistico
venga
dato
dall’apertura
dei
teatri
pubblici,
in
particolare
del
San
Bartolomeo
a Napoli
nel 1621
e del
San
Cassiano
a
Venezia
nel
1637.
L’organizzazione
di nuovi
spazi
aperti
al
pubblico,
costrinse
l’opera
ad
uscire
dai
palazzi
aristocratici
per
prodursi
in tutta
la
penisola
allargando
il
proprio
uditorio
alle più
disparate
classi
sociali.
Questa
diffusione,
se da un
lato
permise
lo
straordinario
sviluppo
del
melodramma
nella
direzione
che oggi
conosciamo,
dall’altro
non
consentì
ai
compositori
di
continuare
quella
missione
"eletta"
di
recupero
degli
antichi
valori
della
tragedia
greca
dalla
quale
l'opera
in
musica
prendeva
le
mosse.
Questa
"crisi"
culturale,
dovuta
principalmente
alla
scarsa
propensione
del
nuovo
pubblico
ad
identificarsi
nelle
vicende
di
Orfeo,
piuttosto
che di
Didone o
Giove,
portò al
forzato
inserimento
nel
dramma
in
musica
di
alcune
scene
buffe
alle
quali
venne
affidato
il
compito
di
alleggerire
il tono
greve
del
dramma.
In un
primo
tempo
queste
“pause
ricreative”
si
produssero
in
momenti
di breve
durata,
ma ben
presto
il
favore
del
pubblico,
unitamente
alle più
prosaiche
pretese
degli
impresari,
costrinse
i
compositori
a
trasformarle
in vere
e
proprie
scene,
tanto
indipendenti
dalla
trama
del
dramma
da
venire
spesso
trasferite
in altre
opere
senza
alcuna
variazione
di
sorta.
Animate
dalle
schermaglie
di
semplici
pastori
o di
servi
sciocchi
alle
prese
con
vecchie
nobildonne
infatuate,
queste
scene
conquistarono
presto
grande
popolarità
in tutta
Europa
e,
raggruppate
in
raccolte,
vennero
sempre
più
spesso
proposte
come
momento
di
teatro
indipendente.
La
strada
verso lo
sviluppo
del
genere
comico
poteva
considerarsi
quindi
tracciata,
tanto
che sul
finire
del XVII
secolo i
componenti
dell'Accademia
dell'Arcadia,
eletti
guardiani
dei
valori
della
tragedia
greca,
guidati
dal
poeta
cesareo
Apostolo
Zeno,
avvertirono
urgente
il
bisogno
di
riformare
il
melodramma,
ormai
divenuto
un
genere
ibrido
in cui,
accanto
ai prodi
guerrieri
ellenici,
non era
difficile
trovare
le
maschere
della
Commedia
dell’Arte.
Questa
riforma,
attuata
a
partire
dal
1690,
portò
diversi
sconvolgimenti
all’interno
del
melodramma,
primo
fra
tutti
l’espulsione
delle
scene
comiche
dallo
svolgersi
dell’opera,
che da
questo
momento
verrà
comunemente
definita
seria.
Il primo
passo
verso il
riconoscimento
ufficiale
di un
genere
buffo
poteva
dirsi
compiuto.
Primi
esperimenti
L'operazione
di
riorganizzazione
del
repertorio
drammatico
con la
consequenziale
estromissione
delle
scene
buffe
dall'opera
seria,
oltre a
favorire
una
rinascita
di
quest'ultima
e un
ritorno
ai suoi
principi,
permise
al
teatro
comico
di
cristallizzarsi
in un
genere
indipendente
e ben
definito.
Teatro
di
questa
rivoluzione
fu la
Napoli
di
inizio
secolo
dove
venne
rappresentata
nel 1706
La
Cilla,
commedeja
pe'
mmusica
di
Michelangelo
Faggioli.
Questo
lavoro,
allestito
presso
il
palazzo
del
Principe
di
Chiusano,
aprì la
strada
allo
sviluppo
di un
genere,
quello
della
commedia
per
musica
in
dialetto,
che
getterà
le basi
per la
crescita
della
prossima
opera
buffa
settecentesca.
Passando
dai
teatri
signorili
al
teatro
pubblico,
seguendo
cioè lo
stesso
percorso
tracciato
in
precedenza
dall'opera
seria,
la
commedia
musicale
trovò
nel
pubblico
napoletano
l'auditorio
ideale,
composto
cioè da
quegli
stessi
soggetti
che
portava
sul
palcoscenico.
Un
esempio
per
chiarire
questo
importante
momento
può
essere
individuato
nel
successo
riscosso
dalla
rappresentazione
al
Teatro
dei
Fiorentini
nel 1709
dal
Patrò
Calienno
de la
Costa di
Antonio
Orefice,
opera in
dialetto
napoletano
comunemente
indicata
come la
prima
opera
buffa
della
storia.
L’immedesimazione
del
pubblico
nei
personaggi
della
rappresentazione,
aspetto
questo
del
tutto
assente
nel
teatro
serio,
fece la
fortuna
dell'opera
comica.
Nei
primi
lavori
rappresentati
a Napoli
il
semplice
ricorso
al
dialetto
permise
infatti
alla
massa di
accostarsi
al
genere
operistico,
prima
riservato
solo
alla
comprensione
di pochi
eletti.
Si può
affermare
infatti
che il
dialetto,
in un
certo
senso,
riunì in
un'unica
sala gli
aristocratici,
abituati
in
privato
a
parlare
in
napoletano,
e il
popolo
borghese.
Questa
democratizzazione
dello
spettacolo
operistico
portò
alla
grande
rivoluzione
teatrale
del
Settecento
e quindi
alla
nascita
dell'opera
"borghese"
con
protagonisti
scelti
tra la
gente
comune
piuttosto
che tra
gli
augusti
frequentatori
dell'Olimpo.
In
seguito
ai
continui
successi
riscossi
da
lavori
quali
Lollo
pisciaportelle
di De
Falco
(1709) e
di
Spellecchia
finto
razzullo
di Di
Mauro
(1709)
anche
compositori
di
primaria
importanza
quali
Alessandro
Scarlatti,
Leonardo
Vinci,
Leonardo
Leo si
accostarono
al nuovo
genere
decretandone
la
definitiva
consacrazione
anche
tra gli
strati
più
elevati
dell'aristocrazia
musicale.
Massimo
esponente
della
commedeja
pe'
mmusica
fu
certamente
Giambattista
Pergolesi,
straordinario
genio
del
nuovo
teatro
musicale,
autore
di
capolavori
quali Lo
frate 'nnamorato
(1732) e
Il
Flaminio
(1735).
Gli
intermezzi
e la
farsa
Parallelamente
allo
sviluppo
della
commedeja
pe'
mmusica
l'espulsione
del
comico
dall'opera
seria
portò
alla
formazione
di
un'altra
realtà
teatrale
indipendente
dal
dramma,
ma
ancora
fortemente
legata
all'estetica
delle
vecchie
scene
buffe:
l'intermezzo.
Un primo
segnale
di
sviluppo
in
questa
direzione
lo si
può
rintracciare
a
Venezia
nella
stampa a
parte
del
testo
delle
scene
buffe,
sintomo
questo
di una
ritrovata
identità
comica
che
cerca di
rendersi
indipendente
dall'opera
seria
fin
dall'ultimo
decennio
del XVII
secolo.
Questo
primo ed
essenziale
impulso
lo si
deve
principalmente
al
sodalizio
artistico
stretto
fra
Giovanni
Battista
Cavana,
elogiato
interprete
di scene
comiche,
e il
librettista
Pietro
Pariati,
i quali
raccolsero
un
discreto
numero
di scene
buffe
trasformandole
in
piccole
operine
intitolate
col nome
dei
protagonisti.
Il
successo
di tale
iniziativa
fu tale
che già
nei
primissimi
anni del
Settecento
molti
compositori
si
dedicarono
alla
composizione
di "operine"
leggere
sviluppate
in un
paio di
scene
contenenti
qualche
arietta
di
semplice
scrittura
e
concluse
da un
breve
duetto.
Nacquero
così gli
intermezzi,
brevi
momenti
comici
da
rappresentarsi
tra un
atto e
l’altro
dell'opera
seria.
Da
Venezia
l'intermezzo
si
espanse
presto
in tutta
la
penisola
approdando
a Napoli
dove,
unitamente
al
successo
già
riscosso
dalla
commedia
per
musica
in
dialetto,
suggellò
la
definitiva
rivincita
dell'opera
comica
su
quella
seria.
Dall'incontro
fra
l'intermezzo
veneziano
e la
commedia
napoletana
nacque
quello
straordinario
movimento
culturale
che
formò le
due
“scuole”
più
importanti
del
secolo,
quella
Veneziana
e quella
Napoletana.
Da
questo
importante
sviluppo
emersero
musicisti
come
Giambattista
Pergolesi
che
nel 1733
unirà le
diverse
esperienze
producendosi
nel
capolavoro
assoluto
del
genere:
La serva
padrona.
Sul
trascinante
successo
dell’intermezzo,
che si
conquistò
sempre
più
spazio
fino a
raggiungere
le
dimensioni
di
“piccola
opera in
musica”,
si
sviluppò
la
farsa,
genere
che
indirizzò
con
successo
la
critica
pungente
dei suoi
libretti
verso
mondo
paludato
dell’opera
seria.
Un
esempio
chiarificatore
in
questo
senso
può
essere
indicato
ne
“La
Dirindina”
di
Domenico
Scarlatti
rappresentata
con
grandissimo
successo
a Lucca
nel
1715.
Inizialmente
la
struttura
musicale
degli
intermezzi,
così
come
quella
delle
farse,
si
presentava
piuttosto
semplice,
basata
su una
costante
ricerca
di
adesione
fra
testo e
musica,
senza
che
quest’ultima
prendesse
mai il
sopravvento
sul
senso
del
libretto
come
accadeva
invece
nell’opera
seria.
Mancava
un’introduzione
strumentale
e le
semplici
ariette
erano
separate
solo da
brevi
recitativi
secchi,
anche se
non
mancano
esempi
con
recitativi
accompagnati,
spesso
riservati
al
momento
culminante
della
vicenda.
Ben
presto
però,
con il
veloce
svilupparsi
del
genere e
la
rappresentazione
dei
pretenziosi
lavori
di
Giambattista
Pergolesi,
Domenico
Scarlatti
e
Niccolò
Jommelli,
la
struttura
dell’intermezzo
si
sviluppa
arrivando
a
comprendere
arie
vere e
proprie,
duetti e
terzetti
seguiti
da
complicate
scene
d’assieme.
Allo
strumentale,
fino ad
ora
composto
solo da
pochi
archi,
si
uniscono
gli
strumenti
a fiato
e i
recitativi
vengono
accompagnati
al basso
continuo.
Le
vicende
vissute
dai
personaggi
sono
ispirate
al
quotidiano
e si
riferiscono
a temi
fissi
quali
finti
processi,
matrimoni
segreti,
militari
ubriachi,
malattie
curiose
di
improbabile
origine
esotica
o buffe
incomprensioni
fra
stranieri.
Il loro
testo,
che
inizialmente
poteva
comunque
contare
su una
certa
raffinatezza
d'espressione
ereditata
dall'opera
seria,
si
infarcisce
nel
tempo di
volgarità
e doppi
sensi
avvicinandosi
sempre
di più
ai modi
d’espressione
del
volgo.
La
familiarità
dell'intermezzo
portò
dunque a
una
volgarizzazione
dell'opera
e di
conseguenza
dei suoi
esecutori.
I primi
a
doversi
adattare
a questa
nuova
veste
del
teatro
musicale
furono
le voci,
arricchite
nella
loro
compagine
dalla
presenza
di
quelle
femminili,
ridottissima
se non
del
tutto
assente
nell'opera
seria. I
nuovi
artisti
dell'intermezzo
e della
farsa
dovettero
quindi
lavorare
molto
sulle
proprie
doti
attoriali
poiché
la sola
voce non
bastava
più ad
attirare
il
pubblico
nelle
sale. Ai
cantanti
della
nuova
generazione
si
chiede
soprattutto
agilità
fisica,
più che
vocale,
e un
innato
senso
del
teatro.
Dopo
questa
prima
fase di
grande
sviluppo
l'intermezzo
si trova
costretto
a cedere
il passo
ad una
sempre
crescente
richiesta
di
soggetti
più
complicati,
magari
sviluppati
in più
atti e
su
vicende
molto
intricate,
quindi
non più
rappresentabili
tra un
atto e
l'altro
di un
dramma.
Il
pubblico
e gli
impresari
chiedono
ai
compositori
vere e
proprie
opere su
soggetto
comico,
lavori
che non
tarderanno
ad
arrivare
a
partire
dagli
anni
Quaranta
con le
produzioni
di
Baldassarre
Galuppi,
Niccolò
Piccinni,
Giovanni
Paisiello,
Domenico
Cimarosa
e più
tardi di
Pasquale
Anfossi.
Tuttavia
sarebbe
errato
pensare
a un
repentino
declino
dell’intermezzo
che
sopravviverà
fino
agli
ultimi
anni del
Settecento
come
genere
di
piacevole
ed
elegante
intrattenimento.
Tra i
capolavori
"napoletani"
di fine
secolo
si
ricordano
i
riuscitissimi
La serva
padrona
(1781),
Le due
contesse
(1776)
di
Giovanni
Paisiello
e I due
baroni (XXX)
di
Domenico
Cimarosa.
L'opera
buffa,
primo
atto
Nel 1740
si può
dire che
l’opera
buffa
avesse
già
superato
la prima
fase di
sviluppo
concretizzandosi
in un
repertorio
ormai
rifinito,
che
fissò le
sue
regole
nell’alternanza
veloce
di arie,
duetti,
terzetti,
recitativi
accompagnati
e
soprattutto
finali
elaborati,
sommando
cioè le
innovazioni
principali
delle
due
esperienze
italiane,
quella
napoletana
e quella
veneziana.
Come
nell’intermezzo
i
soggetti
sono
tratti
dal
vivere
quotidiano
e lo
svolgersi
degli
eventi
si
sviluppa
lungo un
crescendo
di
situazioni
paradossali,
spesso
incredibilmente
artefatte.
Travestimenti,
equivoci,
fughe,
matrimoni
celati e
schermaglie
tra
servi
sono la
linfa
vitale
che
scorre
nelle
partiture
delle
opere
buffe e
che
conquista
il
pubblico,
elemento
sempre
più
influente
nella
realtà
teatrale
settecentesca.
In scena
viene
portato
il
trionfo
dell’ingegno
umano
sulle
azioni
materiali
dettate
dalle
rigide
convenzioni
sociali,
così
semplici
borghesi
riescono
a
sposare
ricche
nobildonne
e astute
servette
a
maritarsi
con
ricchi
nobili.
Se
l’opera
buffa
abbandona
di tanto
in tanto
le
vicende
borghesi
del
quotidiano
è per
dedicarsi
alla
farsa
dell’opera
seria e
dei suoi
rigidi
schemi.
In
questo
caso i
protagonisti
sono le
prime
donne, i
castrati
e gli
impresari,
con i
loro
capricci,
le loro
angustie
e le
loro
esagerazioni.
Quest’ultimo
filone
riscuoterà
particolare
successo
nella
seconda
metà del
XVIII
secolo
con
lavori
di
grande
notorietà
quali La
Cantarina
(1756)
di
Baldassarre
Galuppi,
La
Critica
(XXX) di
Niccolò
Jommelli,
L’opera
seria (XXX)
di
Florian
Leopold
Gassmann
e Prima
la
musica e
poi le
parole
(1786)
di
Antonio
Salieri
che già
nel
titolo
evidenzia
la
fondamentale
differenza
che
separa
l’opera
seria da
quella
buffa:
il
predominare
del
testo, e
quindi
della
vicenda,
sulla
musica.
Ritornando
però
agli
anni
Quaranta
bisogna
mettere
in
evidenza
che fu
proprio
lo
straordinario
successo
riscosso
dai
lavori
di
quegli
anni a
portare
gli
autori
dei
libretti
verso
una
dimensione
più
consapevole
della
commedia.
Più il
comico
riscuoteva
successo
più gli
impresari
ne
facevano
richiesta
a
librettisti
e
compositori
spingendo
entrambi
ad
orientarsi
verso
nuove
tematiche.
I più
autorevoli
testimoni
di
questo
straordinario
momento
di
transizione
sono i
due
librettisti
Carlo
Goldoni
e
Francesco
Cerlone
attivi
rispettivamente
a
Venezia
e a
Napoli,
vale a
dire nei
due
centri
di
maggior
sviluppo
della
neonata
opera
buffa.
Se Carlo
Goldoni
ebbe
l'intuito
di
importare
nel
mondo
musicale
la
straordinaria
rivoluzione
già
operata
nel
teatro
in prosa
con
l’affermazione
della
commedia
borghese
non
priva di
sentimentalismi
riflessivi
e buoni
propositi,
a
Cerlone
va
riconosciuto
il
merito
di aver
dato
inizio
al
filone
“fantastico”
ispirato
cioè
all’oriente,
all'avventuroso
e al
fantasioso.
Si
distinguono
così
nell'opera
buffa
italiana
due
correnti
distinte
chiamate
“scuole”,
una
Napoletana
e
l’altra
Veneziana.
Originariamente
le due
identità
più
importanti
della
penisola
si
distinsero,
oltre
che per
la
provenienza
dei
compositori
operanti
nei due
diversi
contesti,
soprattutto
per
alcuni
elementi
strutturali
che ne
differenziavano
le
produzioni.
Nell’opera
buffa
veneziana,
come già
accennato,
si ebbe
la
grande
influenza
goldoniana
e
l’usanza
di
inserire
in
partitura
alcune
arie
popolari,
mentre a
Napoli
l’aspetto
più
caratterizzante
fu il
riemergere
degli
stilemi
della
Commedia
dell’Arte,
dei
caratteri
delle
sue
maschere
adattati
ai nuovi
protagonisti.
Tuttavia
questa
distinzione
non
sopravvisse
a lungo.
La
tradizionale
trasferta
veneziana
che per
consuetudine
ogni
compositore
italiano
doveva
compiere
affinché
la
propria
formazione
potesse
dirsi
completa
permise
uno
scambio
di
tematiche
tra
Napoli e
Venezia
ricco di
spunti e
ispirazioni.
I
giovani
napoletani
arrivavano
a
Venezia
col loro
stravagante
bagaglio
culturale
e
tornavano
in
Patria
arricchiti
dalle
sofisticate
ispirazioni
veneziane.
Tale
miscuglio
di
“stili”
appare
evidente
nella
tarda
produzione
di
Baldassarre
Galuppi,
incontrastato
monarca
dell'opera
veneziana,
che in
sostanza
non
risulta
troppo
dissimile
da
quella
dei suoi
contemporanei
napoletani.
Lo
stesso
fatto
che
Niccolò
Piccinni,
padre
storico
della
tradizione
napoletana,
musicò
un
soggetto
del
veneziano
Goldoni,
La
Cecchina
ossia La
buona
figliola
(1760),
lascia
intendere
quanto
il
confine
tra
Scuola
Veneziana
e
Napoletana
si fosse
ridotto,
nella
seconda
metà del
secolo,
a
semplice
distanza
geografica.
Con
Goldoni,
dicevamo,
si
sviluppa
un nuovo
modo di
concepire
la
vicenda
dell’opera
buffa
che
comincia
ad
accostarsi
a temi
più
complessi,
non solo
per
quanto
riguarda
lo
svolgersi
della
vicenda,
ma anche
nella
definizione
dei
personaggi,
delle
loro
personalità
e
soprattutto
dei loro
sentimenti.
Non più
uno
spietato
susseguirsi
di
eventi,
ma un
alternarsi
di
divertimento
e
riflessione.
"Galuppi
a
Venezia"
e "Piccinni
a
Napoli",
furono
queste
le
principali
identificazioni
musicali
di
questa
importantissima
fase di
affermazione
dell'opera
buffa
che ebbe
in Carlo
Goldoni,
oltre
che un
geniale
comune
denominatore,
un
ricettivo
innovatore.
Mentre i
successi
de L'Arcadia
in
Brenta
(1749),
Il mondo
della
luna
(1750),
Il mondo
alla
roversa
(1750) e
Il
filosofo
di
campagna
(1754),
faranno
di
Baldassarre
Galuppi
il
compositore
più
ricercato
della
ormai
tramontante
tradizione
veneziano-goldoniana,
La
Cecchina
ossia la
buona
figliola
di
Niccolò
Piccinni
innalza
l'opera
buffa
napoletana
a
testimone
di
un'epoca
destinata
a
completarsi
con i
gloriosi
astri di
Giovanni
Paisiello
e
Domenico
Cimarosa.
Gloria e
Tramonto
Trascurando
quella
che sarà
la
particolarissima
parentesi
mozartiana
si può
affermare
che
l'opera
buffa
tardo-settecentesca
visse il
suo
momento
di
maggior
splendore
con
l'attività
di due
compositori
appartenenti
alla
celebre
quanto
florida
Scuola
Napoletana:
Giovanni
Paisiello
e
Domenico
Cimarosa.
Fatto
tesoro
delle
premesse
fissate
da Carlo
Goldoni,
i due
alfieri
dell'opera
buffa
impararono
a
sfruttare
il nuovo
lato
patetico
della
commedia
scrivendo
pagine
che
seppero
presto
imporsi
sul
gusto
del
pubblico
europeo
di
Vienna,
Napoli,
Venezia
e San
Pietroburgo.
Opere
come
Il
Barbiere
di
Siviglia
(1782),
Nina
ossia La
pazza
per
amore
(1789)
di
Paisiello
o Il
matrimonio
segreto
(1792)
di
Cimarosa
si
imposero
quali
pietre
di
paragone
per
qualsiasi
compositore
che
decidesse
di
impegnarsi
nell'opera
buffa
rimanendo
tuttavia
insuperate
fino al
passaggio
della
meteora
rossiniana.
Furono
pochi i
compositori
che
riuscirono
a
ricavarsi
uno
spazio
all'interno
della
produzione
italiana
della
seconda
metà del
settecento
dominata
da
Paisiello
e
Cimarosa,
tra
questi
vanno
ricordate
le due
gradi
personalità
di
Antonio
Salieri,
autore
di molte
opere
buffe
tra cui
Le donne
letterate
(1770),
La
grotta
di
Trofonio
(1785),
Falstaff
(1799) e
Pasquale
Anfossi,
autore
di
rinomati
lavori
come La
finta
giardiniera
(1774) e
Il
curioso
indiscreto
(1777).
La
produzione
di
questo
periodo,
che
abbraccia
gli
ultimi
tre
decenni
del
XVIII
secolo,
è
caratterizzata
da una
totale
maturazione
del
genere
comico e
quindi
da una
raggiunta
consapevolezza
musicale
che si
fossilizza
su tipi
ben
delineati.
L'orchestrazione
dei
nuovi
lavori è
ricca di
sfumature
e
utilizza
tutti
gli
elementi
dell'orchestra
dando ai
fiati
particolare
importanza,
soprattutto
nelle
arie
languide
di
solito
affidate
al
soprano.
Anche la
divisione
del
ruoli
subisce
una
concreta
affermazione
fissandosi
sugli
stereotipi
della
pupilla
oppressa
(soprano),
del
tutore
barbogio
(basso
buffo),
dell'innamorato
(tenore
di mezzo
carattere)
e del
deus ex
machina
che si
adopera
affinché
l'atteso
lieto
fine
possa
trionfare
(basso
cantabile
o
baritono
buffo).
Sono
dunque
questi
gli
schemi
dell'opera
buffa
che
dall'Italia
si
allargherà
in tutti
gli
stati
europei
coinvolgendo
nei suoi
mirabolanti
giochi
molti
compositori
stranieri.
Tra
questi
spicca
in
particolare
Franz
Joseph
Haydn
che
si
dedicò
con
attenzione
proprio
al
repertorio
italiano
mettendo
in
musica
alcuni
libretti
di
Carlo
Goldoni
tra
cui Lo
speziale
(1768)e
Il mondo
della
luna
(1777).
L’espandersi
dell’opera
buffa
negli
stati
europei
contribuì
certamente
allo
sviluppo
del
teatro
comico
in
lingua
tedesca
prima
praticato
solo
nella
forma
del
Singspiel,
sorta di
opera in
musica
composta
da arie,
duetti e
terzetti
intervallati
da
dialoghi
recitati.
Ma la
grande
rivoluzione
tedesca
aspettava
Wolfgang
Amadeus
Mozart,
genio
indiscusso
del
panorama
operistico
di fine
secolo
che fece
dell’opera
italiana
l’espressione
più alta
del
teatro
musicale
contemporaneo.
I viaggi
compiuti
dal
giovane
Salisburghese
col
padre in
Italia e
la
frequentazione
di
alcuni
tra i
maggiori
esponenti
della
cultura
napoletana,
tra i
quali
Niccolò
Piccinni,
fecero
di
Mozart
soprattutto
un
appassionato
dell’opera
buffa,
genere
che
saprà
sviluppare
con un
un’inventiva
senza
precedenti.
A parte
alcuni
lavori
giovanili,
ancora
saldamente
legati
allo
stile
napoletano
come La
finta
semplic,
i
capolavori
di
Mozart,
raggruppati
nella
celebre
trilogia
su
libretto
di Da
Ponte,
Le nozze
di
Figaro
(1786),
Don
Giovanni
(1787) e
Così
fan
tutte
(1790),
si
posero
immediatamente
su un
altro
piano
drammatico
esaltando
l’aspetto
patetico
delle
diverse
vicende
senza
mai
cadere
nel
manierismo
o nei
facili
effetti
orchestrali.
L’opera
buffa
mozartiana
si apre
quindi
alle
nuove
tematiche
sociali,
basti
pensare
alla
profondità
di certe
pagine
de Le
nozze di
Figaro,
forse il
lavoro
più
critico
e
innovativo
di
Mozart.
Perché
l’estro
del
Salisburghese
possa
dirsi
almeno
eguagliato
bisognerà
attendere
il primo
decennio
del XIX
secolo
con
l’avvento
del più
grande
esponente
della
rinata
opera
buffa
italiana:
Gioachino
Rossini,
autore
di
capolavori
indimenticabili
quali
L’Italiana
in
Algeri
(1813),
Il
barbiere
di
Siviglia
(1816),
La
Cenerentola
(1817),
senza
dimenticare
le
riuscitissime
prove
giovanili
de La
cambiale
di
matrimonio
(1810),
La
pietra
di
paragone
(1812),
L’inganno
felice
(1812) e
La scala
di seta
(1812).
Attraverso
Rossini
l’opera
buffa
italiana
riacquista
lo
scettro
del
comando
strappandolo
definitivamente
ai
compositori
stranieri,
ma non
per
questo
ne
dimentica
le
esperienze.
Come
Mozart
anche
Rossini
seppe
ispirarsi
ai
maestri
contemporanei
sviluppandone
però la
scrittura
fino ad
arricchirla
di uno
spessore
drammatico
e comico
prima
impensati.
L’opera
buffa,
che nel
passare
degli
anni si
è
sviluppata
nel
dramma
giocoso,
si
arricchisce
di nuovi
colori
irradiati
da
orchestre
meglio
sfruttate,
soprattutto
nelle
introduzioni
orchestrali.
L’opera
buffa
ottocentesca
inoltre
porta
nella
struttura
innovazioni
fondamentali
che non
abbandonerà
più come
l’eliminazione
del
recitativo
secco,
sostituito
da
ariosi e
scene, e
l’inserimento
di
elaborate
cavatine
accompagnate
da
un’orchestra
sempre
più
presente,
più
arricchita
di
effetti.
Merito
particolare
di
Rossini
fu
proprio
quello
di aver
introdotto
un nuovo
modo di
considerare
l’accompagnamento
orchestrale
che
nelle
nuove
partiture
gareggia
con i
cantanti.
Anche
alle
voci si
richiede
maggior
elasticità
sviluppando
così
vocalità
più
estese
di
quelle
settecentesche,
soprattutto
più
malleabili.
Altra
personalità
di primo
piano
nella
produzione
comica
della
prima
metà
dell’Ottocento
è
Gaetano
Donizetti,
autore
dei due
soli
capolavori
che
furono
in grado
di
competere
con le
creazioni
di
Rossini:
L’elisir
d’amore
(1832) e
Don
Pasquale
(1843),
quest’ultima
comunemente
riconosciuta
come
l’ultima
vera
opera
buffa
della
nostra
storia
musicale.
L’avvento
del
Romanticismo,
con le
sue
esigenze
drammatiche
e i suoi
straordinari
trasporti
emotivi,
non
permise
all’opera
buffa di
prodursi
oltre la
seconda
metà del
XIX
secolo
se non
attraverso
lavori
ibridi,
ispirati
vagamente
alle
produzioni
semi-serie
di
Rossini
e
Donizetti
i quali
si
ritirarono
presto
dalla
scena
musicale
sorpassati
proprio
dalla
neonata
opera
romantica,
straordinario
contenitore
di
emozioni
in grado
di
comprendere
nelle
sue
pagine
sia il
buffo
che il
drammatico.