Il XVIII Secolo
Al principio del XVIII sec. l'opera di stile italiano si è diffusa ormai in tutta Europa ad eccezione, abbiamo visto, dalla Francia, dove impera la tragédie-lyrique. Ora, ad opera anche delle nuove importanti figure di librettisti, quali Apostolo Zeno (1668-1750) e Pietro Metastasio (1698-1782), si configurano nuovi generi teatrali: nasce l'opera seria.
Dai libretti, quasi sempre incentrati su vicende tratte dalla storia greca e romana, vengono eliminati i riferimenti e i personaggi comici che passeranno nell'intermezzo il quale segnerà la nascita dell'opera buffa.
Figura di "trait d'union” tra l'operismo seicentesco e le nuove forme che da questo si stavano sviluppando, è certamente quella del compositore palermitano Alessandro Scarlatti (1660-1725). Trasferitosi dodicenne con la famiglia a Roma, esordisce come operista all'età di diciannove anni, nel febbraio del 1679, con l'opera "Gli equivoci nel sembiante". Il successo è immediato e grazie anche alla protezione della regina Cristina di Svezia si avvia verso una brillantissima carriera compositiva. Attivo tra Roma, Firenze e Napoli, fu soprattutto in questa città, nella quale giunse per la prima volta nel 1684, che Scarlatti lasciò la sua impronta più significativa. Tra le sue opere ricordiamo il "Pirro e Demetrio" (1694), "Mitridate Eupatore" (1707), "Tigrane" (1715), l'opera comica "Il trionfo dell'onore" (1718) e "La Griselda" (1721). Sono importanti le innovazioni stilistiche apportate da Scarlatti all'opera: stabilisce lo schema della sinfonia avanti l'opera che si apre con un movimento veloce, al quale segue un breve adagio e in chiusura nuovamente un allegro, generalmente su un tempo di danza; introduce un ampio uso di recitativo accompagnato, che si contrappone a quello secco, allo scopo di raggiungere forti effetti drammatici: opera la codificazione definitiva dell'aria col da capo e fissa un uso dell'orchestra sempre più ricco e vario.
Lo sviluppo dell’opera seria e la nascita dell’opera buffa
Così come Venezia era stata nel XVII sec. il principale palcoscenico italiano, ora questo primato passa a Napoli, che diventa una vera e propria fucina dell'arte musicale e non solo. La strada aperta da Alessandro Scarlatti trova subito in Leonardo Vinci (1690-1730) un appassionato successore. Con il suo primo lavoro "Lo cecato Fauzo" (1719), fu tra i primi a scrivere l'opera buffa in dialetto napoletano (l'aspetto dialettale, in particolare quello napoletano, lo ritroveremo ancora in opere di Rossini e Donizetti), ma fu anche un autore di opere serie, fra cui alcune su libretti di Metastasio: "Didone addormentata", "Alessandro nelle Indie", "Artaserse" e "Catone in Utica". Nelle sue opere si trova un ulteriore sviluppo dell'aria tripartita, una maggiore differenziazione della sezione centrale che accentua così il contrasto con le altre parti.
Altra figura di spicco nel vasto panorama musicale napoletano è Leonardo Leo (1694-1744) uno dei più interessanti compositori di commedie musicali, quel genere d'opera, tipicamente napoletano, che accostava il linguaggio dell'opera seria a quello dell'intermezzo.
È comunque il nome di Giovanni Battista Pergolesi (1710-1736) quello che più d'ogni altro viene ricordato come tra i più celebri, se non il più celebre autore dell'opera seria napoletana. In anni in cui l'opera settecentesca era caduta nell'oblio più totale, il nome di Pergolesi è sempre rimasto nella considerazione dei posteri. Lo si ricorda soprattutto per il suo intermezzo "La serva padrona" o per lo "Stabat Mater", ma le sue opere serie, come ad esempio "Adriano in Siria" (1734) o "L'Olimpiade" (1735). Contengono alcune tra le più belle pagine vocali dell’operismo settecentesco, sebbene poco apprezzate dai contemporanei. "L'Olimpiade", su libretto di Pietro Metastasio, andata in scena a Roma nel gennaio del 1735, fu un clamoroso fiasco; sul palco volarono verdura e frutta e un'arancia colpì Pergolesi seduto al cembalo, postazione dalla quale allora si dirigevano le composizioni. Il tumulto che ne seguì, costrinse l'orchestra e i cantanti alla fuga. L'insuccesso fu quasi sicuramente orchestrato, ma l'accusa all'opera di essere "troppo fine" la dice lunga sulla grande modernità ed eleganza del linguaggio di Pergolesi. Il duetto tra Megacle e Aristea, che chiude il primo atto, è stato considerato come "modello" e venne imitato da molti altri compositori contemporanei.
Un aspetto particolarmente interessante riguardo all'opera italiana di questo periodo è la sua rapida diffusione nel resto d'Europa.
Ma facciamo un breve passo indietro, per
dire che il XVIII sec. non è solamente
il secolo dell'opera seria che vede
l'affermazione del melodramma buffo.
Avevamo visto come elementi buffi
fossero già presenti nel lavoro di
Monteverdi o di Cavalli. Nel Settecento
il genere buffo assume connotazioni
abbastanza diversificate: l'opera seria
bandisce dalle proprie auliche vicende
situazioni comiche, relegandole ai
margini, cioè tra un atto e l'altro.
Ecco, dunque, nascere l'intermezzo,
brevi scene affidate a due personaggi,
generalmente una servetta o una
contadina, comunque sempre un ruolo di
estrazione popolare, la quale amoreggia
o litiga con il proprio fidanzato, o
corteggia, per migliorare il proprio
stato sociale, un vecchio borghese (mai
un aristocratico). Tra gli intermezzi
più celebri ricordiamo "Pimpinone"
(1708) di Tommaso Albinoni,
rappresentato insieme ad un'altra sua
opera, l'"Astarto", e quelli di
Pergolesi, "La serva padrona" (1733)
rappresentata con l'opera "Il prigionier
superbo", "Livietta e Tracollo" (1734)
che si alternò agli atti dell'"Adriano
in Siria" ed ancora la "Larinda e
Vanesio" (1736), di Johann Adolf Hasse,
andata in scena con il suo "Astarto".
Musicalmente semplici, senza pretese di
virtuosismo, ma con una grande carica di
freschezza musicale e di verve, con una
grande capacità di ironizzare la società
contemporanea, gli intermezzi sono
generalmente composti da un alternarsi
di arie e recitativi e qualche duetto.
Accanto all'intermezzo troviamo però
anche il genere della
commedia in musica.
Tipicamente napoletano, questo genere
teatrale mescolava personaggi di
popolani, che molte volte cantavano in
dialetto e che spesso erano ripresi
dalla commedia dell'arte, con altri di
estrazione borghese ed aristocratica;
una situazione tipica di questi lavori è
data dal ricco borghese che cerca di far
accasare la propria figlia con un nobile
che, però, si rivela tragicamente
spiantato. Dei bellissimi esempi di
commedie in musica sono, "Lì zite'
ngalera" (1722) di Leonardo Vinci, "Lo
frate 'nnammorato”e "Il Flaminio" (1735)
di Pergolesi, l'"Amor vuol sofferenza
(1739) di Leonardo Leo.
Dalla commedia in musica si sviluppa il dramma giocoso che troverà il suo culmine nelle opere di Mozart, in particolare nel "Don Giovanni".
Sarà proprio il dramma giocoso a prendere il sopravvento sull'ormai sterile opera seria. Questa continua ad offrire un mondo fatto di eroi, semidei, interpretati da voci "asessuate" come quella dei castrati, o da voci femminili che interpretavano ruoli maschili. Non vi era nessun tipo di realismo; le stesse scene e costumi rifuggivano da ogni tipo di realtà storica. D'altro lato la commedia in musica offriva un panorama ben diverso. Innanzitutto il personaggio era collegato ad un giusto timbro vocale: i personaggi diventano credibili e altrettanto credibile è lo sviluppo drammatico della vicenda, vivace e ricco di scene d'assieme, con un rapporto quanto mai stretto tra canto e recitazione. Un altro aspetto, non secondario, è dato dalla compenetrazione dei generi stilistici: assai di frequente nella commedia in musica, la vicenda si giocava sui contrasti tra personaggi provenienti da varie classi sociali: aristocratica, borghese e il popolo. Ecco dunque che i ruoli per così dire "elevati" cantano, con una certa punta di ironia, una vocalità che fa il verso a quella dell'opera seria, mentre gli altri si esprimono nello stile dell'intermezzo. L'opera seria vive in un mondo che potremmo definire "allegorico", mentre l'opera buffa non sfugge alla realtà e quindi alla provocazione.
Il diffondersi dell'intermezzo e della commedia in musica di stampo napoletano in varie città italiane trova a Venezia un terreno particolarmente fertile. Nella città lagunare il campo dell'opera seria era dominato dalla figura di Antonio Vivaldi (1678-1741), abile musicista ed impresario spregiudicato. Dotato di una teatralità istintiva, Vivaldi ha composto opere nelle quali emergono quella freschezza e quella cantabilità, che sono le caratteristiche inconfondibili del suo stile. Tra i suoi lavori teatrali ricordiamo "L'incoronazione di Dario" (1717), "Farnace" (1726), "Orlando furioso" (1727) e "Catone in Utica" (1737).
Nel campo dell'opera buffa veneziana è fondamentale l'apporto di Carlo Goldoni (1607-1693) e della collaborazione che ebbe, tra il 1649 ed il 1755, con il musicista Baldassarre Galuppi (1706-1785). Le opere che scaturirono dall'incontro di queste due notevolissime personalità, "L'Arcadia in Brenta" (1749), "Il mondo della luna" (1750), "Il filosofo di campagna" (1754), "La diavolessa" (1755), tanto per citare alcune tra le più celebri, sono decisive per lo sviluppo dell'opera comica. In molte di esse è evidente il Goldoni commediografo, come ad esempio nell'"Arcadia in Brenta" nella quale si mettono in risalto i capricci e le debolezze dell'alta società veneziana. Il gruppo di nobili che si ritrovano nella villa che il borghese Fabrizio Fabroni possiede sul Brenta, ci riporta direttamente alla memoria le vicende narrate da Goldoni nella sua trilogia della "Villeggiatura".
Il tema dell'opera buffa è quanto mai vasto e complesso e non si può certo trattare qui nella sua interezza. Sicuramente la fine del secolo XVIII vede l'apogeo di questo genere musicale. Perso ormai ogni contatto, diretto o indiretto, con l'opera seria, l'opera buffa, altresì chiamata commedia in musica, è ormai un universo pienamente autonomo e pronto a nuove compenetrazioni. Spetterà a Mozart portare al massimo splendore questo innovativo genere teatrale.
I più celebri operisti buffi di questo
periodo, ma non dimentichiamo che gli
stessi autori si cimentavano anche nel
genere serio, sono sicuramente
Giovanni Paisiello
(1740-1816) e
Domenico Cimarosa
(1749-1801).
Domenico Cimarosa “Il matrimonio segreto”
Con "Nina ossia la pazza per amore",
Paisiello vena l'opera comica di
sfumature elegiache; il canto si piega
alle ragioni espressive e psicologiche
dei personaggi, con accenti che si
possono tranquillamente definire
preromantici. Uno dei più grandi
successi della fine del secolo fu la
prima rappresentazione, tenutasi nel
1792, de "Il matrimonio segreto" di
Domenico Cimarosa.
La freschezza, la bellezza del canto e
la dinamicità dell'incedere teatrale,
fanno di quest'opera il momento più alto
del genere comico in Italia, in attesa
di una nuova svolta che avverrà nel nome
di Giacomo Rossini.
L'opera nel resto d'Europa
Nel capitolo precedente avevamo già fatto cenno alla diffusione dell'opera seria di stile italiano nel resto d'Europa, ad eccezione della Francia dove resisteva saldamente la tradizione della tragédie-lyrique in lingua francese, con proprie caratteristiche non riconducibili allo stile italiano. Altri tentativi di creare un'opera nazionale sono assai rari, isolati e pressoché privi di un reale sviluppo, almeno nella prima metà del XVIII sec. in Germania però, l'opera di Amburgo, il primo teatro d'opera europeo sorto fuori dall'Italia, si sviluppò un teatro d'opera che si rivolgeva ad un pubblico essenzialmente borghese. Gli operisti attivi nel teatro di Amburgo si rivolsero a questo pubblico con un'opera prima di tutto in lingua tedesca e poi con uno sviluppo teatrale quanto più possibile vario, in grado di alternare a momenti drammatici altri di natura più leggera, se non addirittura comica. Lo spettacolo era dunque vario, eclettico, aperto ad ogni tipo di influenza. La musica, inoltre, sfugge ad un unico modello stilistico: guarda all'opera italiana, ma anche a quella francese e a quella inglese, che fornivano varie tipologie espressive.
Massimo esponente di questa scuola borghese è Reinhard Keiser (1674- 1739). Autore quanto mai poliedrico, Keiser scrisse oltre cento opere, delle quali ce ne sono pervenute circa una ventina che ci aiutano a comprendere lo stile di questo compositore e dell'opera amburghese. La sua opera più famosa, "Croesus" (composta nel 1710 e revisionata nel 1730) contiene le caratteristiche del suo stile musicale portate al massimo livello: un uso accurato dell'orchestra che guarda all'opera francese, una particolare attenzione alle ragioni teatrali e ai contrasti teatrali messi in luce da una cura specifica dell'espressività del recitativo e da un uso quanto mai variegato dei vari tipi di arie. Vi si ritrovano arie di genere italiano con il da capo, solitamente non molto ampie, ariosi e Lied, canzoni quasi sicuramente di derivazione popolare.
Il modello operistico sviluppato da Keiser non ha mancato di influenzare altri autori, tra questi i più noti sono sicuramente Georg Philipp Telemann (1681-1767) e Georg Friedrich Handel (1685-1759). Ai nostri giorni la produzione operistica di Telemann è pressoché sconosciuta, se si esclude l'intermezzo "Pimpinone" (1725) composto per l'Opera di Amburgo, teatro per il quale compose circa una ventina di opere, tra le quali va ricordato almeno un altro titolo "Der geduldige Sokrates" ("La pazienza di Socrate" del 1721). Sia "Pimpinone" che "Der geduldige Sokrates" si avvalgono di libretti con testo metà in italiano e metà in tedesco. Il linguaggio musicale del "Pimpinone" è decisamente "italiano" e mostra evidenti analogie con "La serva padrona" di Pergolesi che però verrà rappresentata solamente nel 1733. Ne la"La pazienza di Socrate" Telemann mette in luce la sua grande abilità teatrale nell'affrontare un testo, piuttosto limitato, ma ricco di un gran numero di situazioni differenti che alternano momenti comici ed altri lirici ed appassionati, così come avveniva nelle opere di Keiser.
Se le opere di Telemann giacciono oggi
quasi dimenticate altrettanto non si può
dire della produzione teatrale di Handel
che sta attualmente godendo un periodo
piuttosto felice, segnato da numerose
esecuzioni sia teatrali che
discografiche. Anche la carriera
musicale di Handel inizia nel segno di
Amburgo e di Keiser. Ad Amburgo, nel
1705, Handel presentava la sua prima
opera, l'"Almira", una partitura nello
stile della scuola teatrale di questa
città: libretto metà in tedesco e metà
in italiano, alternanza di scene comiche
ed altre drammatiche, balli e una musica
che guarda chiaramente a Keiser. Ma
l'avvenire operistico di Handel sarà
dominato dallo stile italiano. Tra il
1705 o il 1706 fino al 1709, Handel si
trattenne in Italia, tra Firenze, Roma,
Napoli e Venezia. Durante questo
soggiorno compose le opere "Rodrigo"
(Firenze, 1707) e "Agrippina" (Venezia,
1709). Il successo di quest'ultima fu
strepitoso: ventisette rappresentazioni
al teatro San Giovanni Grisostomo era un
fatto non comune per un giovane tedesco
sconosciuto fino a quel momento. Il
pubblico rimase incantato dalla bellezza
della musica, dalla forza del gioco
teatrale, dalla felicissima
caratterizzazione dei personaggi, in
particolare quello della protagonista
Agrippina. Il successo di "Agrippina"
mostra chiaramente che Handel ha
pienamente assimilato l'arte dell'opera
italiana e la conferma viene nel 1711
quando, in un fastosissimo allestimento
scenico, veniva rappresentato il
"Rinaldo" all'Haymarret Theatre di
Londra.
Georg Friedrich Handel “Agrippina”
Fu un vero e proprio avvenimento
musicale che fece di Handel il
dominatore per molto tempo incontrastato
del mondo musicale inglese. Il "Rinaldo"
rimane a lungo la sua opera più celebre
e, subito dopo Londra, venne ripresa a
Dublino l'11 marzo dello stesso anno (fu
la prima opera italiana ad essere
rappresentata in quella città) quindi ad
Amburgo (1715, in tedesco), e a Milano
(1718). Negli anni a seguire, tra il
1712 e il 1741, e con alterne vicende
Handel portò sulle scene di Londra circa
trentasei opere. Di questa produzione
ricordiamo "Giulio Cesare" e "Tamerlano”
del 1724, "Rodelinda" del 1725, "Ariodante"
e "Alcina" entrambe del 1735, "Orlando"
del 1733 e "Serse" del 1738. Nelle opere
citate, che sono anche tra le sue più
celebri, si esprimono al massimo le
caratteristiche dell'operismo handeliano.
Handel è totalmente e volontariamente
calato nelle convenzioni musicali
dell'opera in cui nulla è più
convenzionale dell'opera seria,
tuttavia, egli riesce ad ignorare e a
superare queste convenzioni ogni qual
volta gli serva una maggior resa
drammatica. Nelle mani di Handel il
nucleo recitativo e l'aria con da capo
assumono nuovi sviluppi a seconda
dell'uso. Un altro importante elemento
che eleva la figura di Handel operista
al di sopra di quella dei suoi
contemporanei è la caratterizzazione dei
singoli personaggi. Con grande sapienza,
Handel li sottrae dalla tipicità che le
convenzioni teatrali avevano loro
imposto e li personalizza. I vari
condottieri, tiranni, regine, maghe etc.
erano infatti figure tipiche che si
esprimevano attraverso un linguaggio
costruito ed impersonale, come era, ad
esempio, quello delle arie
didaschaliche
o divise per
affetti:
arie di dolore, di furore, del sonno etc..
Ne deriva un personaggio a schema fisso
con il quale si doveva rappresentare
questa o quella figura. Ciò non avviene
più con Handel, il quale cerca nel
libretto i personaggi più consistenti e,
identificandosi con essi, dà loro una
vera credibilità teatrale. Sono
soprattutto le sue figure femminili a
beneficiarne e tra tutte spicca la
Cleopatra del "Giulio Cesare",
seduttrice per definizione, intrigante
ed appassionata, uno dei pochi
personaggi teatrali di epoca
preromantica di grande spessore.
L'opera del settecento in Francia
Parlando dell'opera in Francia nel secolo precedente, avevamo visto come, accanto alla tragédie-lyrique, si era andato formando il genere dell'opera-ballett. Ed è proprio questa forma di spettacolo quella che gode la maggiore popolarità tra il pubblico in questo inizio di secolo.
Uno dei maestri in questo genere fu Jean-Joseph Mouret (1682-1738). Giunto a Parigi dalla nativa Avignone, Mouret entrò al servizio della Duchessa du Maine, una delle "preziose" più in vista dell' epoca, una donna "avida di sapere e di sapere proprio tutto", così si diceva di lei. Dilapidando le fortune del marito, la Duchessa, con le sue "Grandes Nuits", aveva fatto del suo castello di Sceaux il centro della vita culturale e mondana di Parigi, facendo impallidire Versailles. Mouret, l'anima musicale di questi intrattenimenti, diede vita a due nuovi generi musicali: l'opera pastoral e il ballett d'action. La sua opera "Le mariage de Ragonde", rappresentata a Sceaux nel 1714 (una seconda versione, con il titolo "Les amours de Ragonda", verrà presentata nel 1742), è un primo esempio compiuto di comédie en musique, un anticipo di quella che sarà un secolo dopo l'operetta di Offenbach. La felice caratterizzazione della vecchia Ragonde, cantata da un baritono "en travesti" e che non ha, come dice il libretto, che "que quatre dents", degli altri personaggi, il tono pastorale ma allo stesso tempo brillante della musica (si notano citazioni ironiche di frasi tratte da opere di Lully), con danze vivaci e, soprattutto, una felice melodia, e che non perde mai d'ispirazione sono le caratteristiche principali di quest'opera.
Figura centrale dell'operismo francese del XVIII sec. è sicuramente Jean- philippe Rameau (1683-1764). Attivo già da tre decenni come organista, teorico e compositore di musica strumentale, soprattutto per clavicembalo, egli giunse all'opera all'età di cinquantadue anni offrendo la tragedia in musica "Hippolyte et Aricie" che venne rappresentata per la prima volta all'Opéra il primo ottobre 1733. L'accoglienza fu piuttosto tiepida, ma andò via via crescendo nel corso delle recite, fino a trasformarsi in un grandissimo successo. I musicisti si lamentavano della difficoltà di questa musica e chiedevano tagli, mentre i vecchi sostenitori dell'opera di Lully si mostravano scandalizzati per l'audacia della musica di Rameau. Si diede così il via alla cosiddetta battaglia tra i lullisti e i ramisti, tra i difensori della tradizione e coloro che vedevano in Rameau il rinnovamento, una nuova via per la tragédie-lyrique. Anche il vecchio musicista André Campra guardava in questa direzione e commentò affermando: "In quest'opera c'è tanta di quella musica da scriverne altre dieci!". Con il ritmo più o meno di un'opera all'anno, tra il 1733 e il 1745, Rameau compose cinque grandi opere ritenute da molti i suoi capolavori. Oltre la già citata "Hippolyte et Aricie", ricordiamo, "Les Indes galantes", "Castor et Pollux" (1737), "Dardanus", "Les fetes d'Hebe" e "Platee" (1745). L'anno 1745 coincide quasi sicuramente con il momento di massima gloria per il compositore di Digione: ha ottenuto la carica di compositore de "la Chambre du roi" ed è universalmente ammirato e coperto di onori. Nel 1751, durante una rappresentazione di "Pygmalion", Rameau, riconosciuto tra il pubblico, riceve un'autentica ovazione. Tutto cambia improvvisamente un anno dopo, quando una compagnia di musicisti italiani presenta a Parigi "La serva padrona" di Pergolesi. Il pubblico si infiamma e nasce un partito a favore dell'opera italiana. A caldeggiarlo è un gruppo di intellettuali chiamati gli enciclopedisti tra i quali Rousseau, Grimm, Diderot come massimi esponenti: essi sostengono la freschezza e la spontaneità dell'opera italiana contro la macchinosità della tragédielyrique, propugnata, invece, dai ramisti. Il vecchio Rameau si trova involontariamente al centro di questa querelle denominata la "querelle des bouffons" (i "bouffons" erano gli italianisti) e da musicista rivoluzionario quale egli era all'epoca della comparsa delle sue opere sulle scene parigine, ora è diventato un compositore reazionario. Verranno scritti fiumi di parole, ma alla fine non ci saranno né vincitori né vinti e, sicuramente, nessun beneficio per entrambe le parti. Rameau, nonostante tutto, ha continuato a comporre grandi lavori come ad esempio "Les Paladines" (1761) e, nell'anno della sua morte, il 1761, "Les boreades", portato in scena solamente in anni recenti. Rameau, maestro nell'arte dell'orchestrazione, è capace di raggiungere effetti prodigiosi anche con ensemble strumentale di poco spessore. Nessuna è un'orchestra "presente" in ogni momento dell'opera: canto ed orchestra viaggiano in una perfetta simbiosi, e la voce è trattata con stupefacente bravura. Fedele alla tradizione della tragédie-lyrique, Rameau pone sempre il recitativo al centro dello sviluppo teatrale, ma, al contrario del recitativo secco dell'opera seria italiana, il recitativo di Rameau "canta" sempre e il passaggio tra il recitativo e l'aria è pressoché inesistente. Rameau presenta l'aria stessa in varie forme trasformando ad esempio l'aria con da capo dell'opera italiana nel canto fiorito, rendendola così gradita al pubblico francese non ancora avvezzo a questo gusto vocale. Altro aspetto, non secondario dell'operismo di Rameau, viene dall'uso del coro, quasi onnipresente nelle sue opere, utilizzato in tutte le sue potenzialità, brillanti ma anche drammatiche, che apre la via alla futura coralità dell'opera gluckiana.
Accanto alla fondamentale figura di Rameau non si possono non ricordare altri importanti musicisti quali Jean-Marie Leclair (1697-1764) e Jean-Joseph Cassanea de Mondonville (1711-1772). Leclair, noto soprattutto come violinista, ha composto un'unica opera, "Scylla et Glaucus", rappresentata a Parigi nel 1741. Accanto ad una scrittura orchestrale particolarmente elaborata e ricca di suggestioni, propensione che a Leclair veniva naturale in qualità di compositore essenzialmente di musica strumentale, sorprende altresì la cura che egli ha profuso alla linea vocale e ai caratteri psicologici dei personaggi. L'opera, che mancava inoltre del convenzionale lieto fine (la morte dei due protagonisti non rientrava nel gusto dei parigini), non venne molto compresa dal pubblico dell'epoca e non riscosse grande successo. Anche Mondonville era noto come violinista, ma ancor più come compositore di musica sacra della quale era un'autentica autorità. In campo teatrale, a differenza di Leclair, Mondonville ha più esperienza, compone tre opere tra le quali la più celebre è senza dubbio "Titon et l'Aurore". Rappresentata nel gennaio del 1753, in piena "querelle des bouffons", quest'opera doveva schiacciare definitivamente i sostenitori dell'opera italiana. Lo scopo venne raggiunto, ma il successo forzato o no che la partitura ottenne alla prima rappresentazione, non toglie nulla al valore dell'opera di Mondonville, carica di grazia, eleganza e leggerezza che ha consacrato al nome del compositore l'appellativo de "l'aimable Orphée".
L’impossibile confronto tra la tragédie-lyrique francese e l'opera buffa italiana della "querelle des bouffons", se non lasciò né vincitori né vinti, fece sì che parte dei sostenitori dell'opera italiana cercassero di creare un'opera comica francese. La strada venne aperta da Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), celebre filosofo e scrittore, musicista autodidatta, e il più accanito nella querelle. Nel 1752 all'Académie Royale de Musique presentò la sua opera "Le divin du village", risposta francese alla "Serva padrona" di Pergolesi. La partitura di Rousseau non ha nulla in comune con quella di Pergolesi, se non nel carattere di freschezza ed allegria, per il resto la presenza di un'ouverture (anche se di taglio italiano, a tre movimenti) e di un divertimento danzato, rientrano nel gusto del pubblico parigino dell'epoca. La via però è stata tracciata e, infatti, appena un anno dopo, il 30 luglio 1753, Antoine Dauvergne (1713-1797) rappresenta il suo intermèdie o opéra- comique in un atto, "Les troquers", preceduta dall' opéra-comique in un'atto "La coquette trompee". Siamo in piena querelle ed in entrambi i lavori, in particolare ne "Le troquers", si respira uno stile volutamente libero e musicalmente semplice che guarda chiaramente a Pergolesi, anche nel carattere dei protagonisti maschili, due bassi buffi, che ricordano l'Uberto della "Serva padrona". Sono presenti infine i dialoghi parlati che sarà la caratteristica principale dell'opera-comique francese.
Va subito detto che il termine opéra-comique non è legato al carattere comico del lavoro, ma al carattere principalmente teatrale dell'opera proprio per la presenza di parti recitate al suo interno. Con questo termine sono state in effetti classificate opere che di comico hanno ben poco come il "Faust" di Gounod o la "Carmen" di Bizet. Il carattere musicale dell'opéra-comique, che si va sviluppando nella seconda metà del XVIII sec., presenta le caratteristiche che abbiamo visto per le opere di Dauvergne: una vocalità semplice, al contrario dello stile della tragédie-lyrique, che si esprime nelle forme dell' ariete e del couplet. Trovano poi spazio i duetti, mentre, a differenza dell'opera buffa italiana, non hanno grande sviluppo le scene d'assieme alla fine degli atti. L'opéra-comique termina generalmente con un vaudeville, un pezzo strofico affidato ai vari protagonisti e con un ritornello cantato dal coro.
I compositori principali di opéra-comique di quest'ultimo squarcio di secolo, sono sicuramente Francois-Andrè Danican Philidor (1726-1795) e Andrè Gretry (1741-1813). Philidor esordisce nell'opera nel 1759 con "Blaise le Savetier" ottenendo un lusinghiero successo. Autore di circa una ventina di opere, Philidor troverà la consacrazione definitiva con "Tom Jones" (1764), lavoro tratto dal popolare romanzo di Fielding, nel quale per la prima volta compare un quartetto a cappella, a testimonianza di uno stile compositivo originale e ricercato. Philidor era difatti un compositore particolarmente attento agli aspetti armonici che nei suoi lavori appaiono sempre piuttosto diversificati, così come varia dal punto di vista dell'espressione è la sua ariete. Lo stile, se vogliamo, più "sofisticato" di Philidor lo ha quasi certamente reso meno popolare del suo collega Gretry. Autore quanto mai fecondo (circa una cinquantina di titoli al suo attivo), ha composto opere di grande successo quali, "Le tableau parlant" (1769), "Zemire et Azor (1771) che mette in musica la nota fiaba de "La bella e la bestia", e "Riccard Coeur-de-Lion" (1784), opera quest'ultima considerata da molti il suo capolavoro. Gretry con il suo stile leggero, ma sempre dotato di una straordinaria cantabilità, rappresenta sicuramente il musicista di passaggio verso il romanticismo. Vissuto in un periodo di transizione, tragicamente segnato dalla Rivoluzione e dall'avvento napoleonico, il compositore infonde nella sua musica fremiti mai sentiti prima. Li percepiamo a tratti nel "Richard", nell'aria di Blondel "O Richard, o mon roi", mentre la malinconica dolcezza dell'arietta di Laurette, "Je crains de lui parler", troverà un illustre citazione, oltre un secolo dopo, nel personaggio della contessa nell'opera "La dama di picche" di Ciajkovskij, nostalgico ricordo di un'epoca ormai irrimediabilmente trascorsa.
L'opera nel resto d'Europa
Nel resto dell'Europa l'opera italiana gode di una notevole diffusione sebbene nei vari paesi inizino a comparire forme teatrali con caratteri nazionali. È il caso della Spagna, dove accanto al melodramma italiano, si è sviluppata la zarzuela, una forma di teatro in musica in lingua spagnola nella quale si alternano parti musicali (con la comparsa anche di temi di tipo tradizionale) e recitate come nell'opéra-comique francese e nel Singspiel tedesco. Sottogenere della zarzuela è la tonadilla, una forma di spettacolo nella quale si fa più marcato il gusto popolare. L'opera si diffonde anche nei possedimenti coloniali spagnoli: il giorno 9 ottobre del 1701, in occasione del compleanno di Re Filippo V alla corte di Lima, in Perù, viene rappresentata l'opera in un atto su libretto di Pedro Calderon de la Barca "La purpura de la rosa", musicata da Tomas de Torrejon Y Velasco (1644-1728), musicista di Villarobledo, nella Spagna meridionale, che dal 1667 fino alla morte svolse la sua attività di compositore a Lima presso la corte del viceré del Perù.
Nella Spagna nella seconda metà del XVIII sec., emerge l'arte del compositore aragonese Josè de Nebra (1702-1768) che fu uno dei massimi compositori presso la corte di Madrid. La sua fama si consolidò quando nel 1735 giunse alla corte di Spagna il celebre castrato Farinelli, per il quale De Nebra compose un "Adriano in Siria", e divenne uno dei musicisti favoriti dal cantante. Con la sua "Viento es la dicha de amor" composta nel 1743, De Nebra ha dato un importante contributo allo sviluppo della zarzuela per quella sapiente commistione di influenze provenienti dall'opera italiana e francese e di altre di chiara derivazione spagnola.
Più pacatamente cosmopolita è invece il valenciano Vincent Martin I Soler (1754-1806). Attivo alla corte di Napoli nel 1777, fu poi alla corte imperiale di Vienna dove, con il successo della sua opera "Una cosa rara" (1786) su libretto di Lorenzo Da Ponte, legherà il proprio nome a Mozart. E proprio con il celebre musicista salisburghese, che in quegli anni cercava di farsi strada nel mondo musicale viennese, Martin I Soler si impose in diretta concorrenza. La stessa cosa si ripeterà in Russia dove verrà invitato dalla zarina Caterina II e dove diventerà rivale del compositore napoletano Domenico Cimarosa, che sarà costretto a lasciare San Pietroburgo.
A proposito della Russia va detto che tra il regno di Pietro il Grande (1682-1725) e quello di Caterina II (1762-1796) la musica conosce un grandissimo incremento, soprattutto sotto il regno della grande Caterina. La Russia porta a compimento il processo di occidentalizzazione iniziato decenni prima: forte è la presenza dei compositori europei alla corte di San Pietroburgo, e i musicisti russi della fine del XVIII sec. sono in grado di comporre opere in perfetto stile italiano o francese. Tra i compositori russi più importanti di questo periodo troviamo Vassili Pashkevitch (1742-1797) autore di un' opéra-comique dal titolo "L'avaro" e Evstignej Fomin (1761-1800), uno dei compositori più interessanti della sua generazione , autore di una decina di opere fra cui ricordiamo "I cocchieri alla stazione di posta" (1787) e l'interessante monologo "Orfeo ed Euridice" (1791-92). Ma il compositore russo più significativo di epoca preromantica è sicuramente Dmitrij Bortnjanskij (1751-1825) allievo di Galuppi e conosciuto soprattutto come autore di musica sacra. Fu al servizio del principe e futuro zar Paolo I per il quale tra il 1786 e il 1787 compose tre opéra-comique in lingua francese: "La fete du Seigneur", "Le faucon" e "Le fils rival". In quest'ultima opera il couplet di Sanchette presenta un motivo che ritroveremo pressoché identico nella scena pastorale de "La dama di picche" di Ciajkovskij.
L'opera italiana domina la vita musicale del Portogallo. Qui fu attivo Domenico Scarlatti che giunse a Lisbona nel 1720, mentre molti giovani talenti venivano invitati in Italia a perfezionare gli studi musicali. Tra questi ci fu anche Joao de Sousa Carvalho (1745-1802) che soggiornò a Napoli dal 1761 al 1767 per entrare quindi al servizio di Re Pietro III. Sotto il suo regno venne inaugurato nel 1793 il teatro di San Carlos che si affiancò a quello di corte per il quale, tra il 1769 e il 1789, Sousa Carvalho compose tredici opere, tutte in lingua italiana.
In Inghilterra l'opera handeliana
rivaleggiava con quella del compositore
modenese
Giovanni Bononcini
(1670-1747) che a Londra aveva riportato
un grande successo con l'opera "Astarto"
e con la successiva "Griselda" (1722).
Ma se è vero il detto che "tra i due
litiganti il terzo gode", a trarre
vantaggio da questa situazione furono i
musicisti della
ballad opera,
una forma di spettacolo che parodiava
l'opera italiana, ne prendeva le arie
più in voga, le camuffava con motivi
popolari e le alternava a parti
recitate; il tutto rigorosamente in
inglese. Capolavoro di questo genere fu
"The Beggar's Opera", scritta da John
Gay con gli arrangiamenti musicali di
John Christopher Pepusch
(1667-1752) e rappresentata a Londra nel
1728. Il successo di quest'opera mise in
crisi in modo quasi definitivo la
supremazia di Handel dando il via ad un
vero e proprio scatenarsi di
ballad opera,
mentre dalla Francia giungeva anche la
nuova moda dell'
opéra-comique.
Cominciano così a farsi largo e a
mietere successi anche compositori
inglesi. Uno dei primi fu
Thomas Augustine Arne
(1710-1778). I suoi lavori di maggior
spicco furono "Thomas and Sally", messo
in scena al Covent Garden il 28 novembre
del 1760, che rappresenta il primo
esempio di opera comica inglese, e che è
un’abile trasformazione de "La serva
padrona" di Pergolesi e, nello stesso
genere, "Love in a village" del 1762.
Sempre nel 1762 era andata in scena l'"Artaxerses",
prima opera seria in lingua inglese.
La produzione operistica in Inghilterra,
tra questo fine secolo e i primi anni
del XIX sec. non è certamente di
altissimo livello. Come già detto in
precedenza, l'isolamento che da sempre
ha caratterizzato questo paese e la
mancanza di un carattere operistico
veramente autonomo non hanno fatto sì
che la
ballad opera
si trasformasse in una sorta di opera
nazionale inglese. Così, dopo Arne,
troviamo pochi nomi di un certo
interesse, tra questi
William Shield
(1748-1829) con la deliziosa "Rosina"
(1782),
Henry Bishop
(1786-1855) del quale si ricorda l'opera
"Clari" (1823), che contiene la
dolcissima canzone "Home, sweet home",
citata anche da Donizetti nella sua
"Anna Bolena" e
William Balfe
(1808-1870), la cui opera più celebre è
"The bohemian girl" (1843).
In Germania, la chiusura nel 1738
dell'Opera di Amburgo che aveva visto il
tentativo da parte di Reinhard Keiser di
far nascere un'opera tedesca, fa sì che
per quasi mezzo secolo l'opera italiana
regni incontrastata sulle scene
tedesche. Così, anche i musicisti
tedeschi compongono in perfetto stile
italiano. Uno dei più celebri della sua
epoca fu sicuramente
Johann Adolph Hasse
(1699-1783). Allievo di Nicola Porpora e
di Alessandro Scarlatti a Napoli, marito
di una delle più acclamate virtuose,
Faustina Bordoni, Hasse diresse l'Opera
di Dresda dal 1731 al 1736, senza però
tralasciare un'intensa carriera
attraverso l'Europa. Ha composto circa
cinquanta opere, praticamente tutta la
produzione librettistica di Pietro
Metastasio, compreso l'ultimo lavoro del
poeta cesareo, "Il Ruggero" che nel 1771
chiude la carriera musicale di Hasse.
Compositore quanto mai elegante,
attentissimo nella cura
dell'orchestrazione, Hasse, in virtù
anche del suo particolare legame con la
poetica metastasiana, potrebbe essere
considerata la summa del conformismo
dell'opera seria. Un'eccezione può
essere considerato l'intermezzo tragico
"Piramo e Tisbe" (1768) nel quale è
evidente una particolare cura per
l'analisi psicologica dei personaggi e
per una musica ricca di invenzione che
sovente rompe il rigido schema dell'aria
con da capo a favore di una maggiore
libertà espressiva. Lo stesso fatto di
aver usato la forma teatrale
dell'intermezzo ai fini drammatici è di
per sé un fatto unico.
Un altro musicista tedesco di nascita ma
italiano di formazione è
Karl Heinrich Graun
(1704-1759), compositore favorito alla
corte di Federico II il Grande di
Prussia. Federico II, oltre ad essere un
eccellente musicista, si occupava
personalmente dall'andamento del nuovo
teatro dell'Opera fatto costruire nei
pressi di Berlino ed inaugurato nel 1742
con l'opera "Cleopatra e Cesare" di
Graun. Graun, da parte sua, componeva
assecondando il gusto del sovrano che
dell'opera amava soprattutto gli aspetti
più lirici e più patetici nei quali
eccelleva l'arte musicale di Graun.
Abbastanza tipico, nelle opere di Graun,
era l'uso della forma dell'aria
bipartita,
cioè senza ripresa. Ne troviamo numerosi
esempi in quella che è considerata la
sua opera più celebre, il "Montezuma "
(1755). Non si può dimenticare
Johann Christian Bach
(1735-1782), il figlio più giovane del
grande Johann Sebastian, soprannominato
anche il "Bach di Milano" o "di Londra",
anch'egli compositore d'opere in
perfetto stile italiano, autore ammirato
anche dal giovane Mozart. Nel genere
dell'opera comica va ricordato invece il
nome di
Florian Leopold Gassmann
(1729-1774), in particolare per le sue
opere "L'amore artigiano" (1767) e "La
contessina" (1770) su libretti tratti da
Carlo Goldoni.
Cosa è rimasto dunque della strada
intrapresa da Keiser? Certamente ben
poco. I compositori che scrivono in
lingua tedesca sono piuttosto rari e il
genere del
Singspiel,
cioè quella forma di teatro che coincide
con
l'opéra-comique
francese e con la
ballad
opera inglese, é ben poca cosa.
Bisognerà attendere Mozart per vedere un
netto passo in avanti in questo genere.
Nel frattempo però emergono le
personalità di
Georg Anton Benda
(1722-1776) e
Karl Ditters von Dittesdorf
(1739-1799). Benda viene ricordato come
compositore di melologhi, il più
celebre, "Arianne auf Naxos" del 1775,
ma nella sua produzione si trova anche
il
Singspiel
"Romeo und Julla" del 1776. In Germania
siamo in pieno
sturm und Drang
e in questo fermento culturale vi è una
larga diffusione dei lavori di
Shakespeare le cui traduzioni in tedesco
presentano non poche libertà. È il caso
del libretto dell'opera di Benda dove la
vicenda dei due amanti Veronesi termina
con un improbabile happy end. Mettere in
musica un testo così importante è
comunque una novità rilevante per un
genere minore come quello del
Singspiel.
Autore soprattutto di opere comiche, sia
in italiano che in tedesco, Dittersdorf
ha dato un notevole impulso al genere
buffo. I suoi lavori, pur mostrando
chiari legami con lo stile italiano,
hanno una freschezza nell'uso
dell'orchestra e nelle melodie, del
tutto personale.
Gluck e la riforma del melodramma
Si è spesso collegato il nome di Gluck alla riforma del melodramma attuata nel tardo Settecento, ma Gluck, sebbene sia la punta di diamante di questo movimento di riforma, non ne è l'unico rappresentante. L'opera nel suo progressivo cammino, si è sempre e costantemente rinnovata; ogni compositore ha aggiunto un tassello, un particolare, che faceva sì che l'opera non fosse mai simile a se stessa. Senza nulla togliere all'importanza di Gluck nella storia dell'opera, desideriamo solamente ridimensionare questa sua posizione di unico perché assolutamente inesatta. Segni di rinnovamento, anche se non vistosi, erano compresi nelle opere di Hasse e di Graun, mentre molto innovativi appaiono i lavori teatrali degli ultimi Nicolò Jommelli (1714-1774) e Tommaso Traetta (1727-1779).
Il percorso musicale di questi due compositori è per così dire parallelo; nelle loro opere si sente un linguaggio internazionale che guarda soprattutto all'operismo francese. Questa è sicuramente una novità perché fino ad ora nessun musicista guardava ad altri stili. In qualsiasi luogo si trovasse a comporre, lo stile non subiva nessuna influenza esterna. Le opere di Jomelli, molte su libretto di Metastasio coprono un periodo che va dal 1740 al 1774 ed evidenziano molti aspetti nuovi. Un esempio è la chiusura d'atto: anziché un'aria troviamo un duetto o, fatto ancora più nuovo, un terzetto; il recitativo è particolarmente curato; sempre più frequente è la presenza del recitativo accompagnato a scapito di quello con il solo basso continuo; sempre più spesso l'aria, liberata dagli schemi formali che la irrigidivano, si congiunge al recitativo senza così interrompere l'azione. Lo stesso discorso è applicabile anche alla produzione di Traetta dove è ancor più avvertibile l'avvicinamento allo stile francese. Lo testimonia la presenza di libretti, con una certa attenzione al gusto spettacolare ed un certo descrittivismo orchestrale ad imitazione della natura. Di derivazione francese è anche l'importanza che viene data al coro, pressoché inesistente nell'opera seria italiana. In questo senso l'"Ifigenia in Tauride" (1762 ) di Traetta presenta scene corali che anticipano di vent'anni quelle che Gluck scriverà nella sua “Ifigenia”.
Ecco dunque come due compositori
sostanzialmente legati alla tradizione
dell'opera italiana, Jacomelli e Traetta,
si sono dimostrati sensibili alla
ricerca di nuovi aspetti che rendessero
più varia l'opera ormai troppo legata a
quelle convenzioni che ne avrebbero
decretato la definitiva decadenza. La
figura di
Christoph Willibald Gluck
(1714-1787) si inserisce quindi in una
sorta di generale, anche se a volte non
consapevole, situazione di cambiamento,
della quale Gluck è stato quasi
certamente uno dei più eminenti fautori.
Osannato in epoca romantica, giudicato
invece un ignorante in fatto di
contrappunto dai suoi contemporanei,
Gluck fa convivere convenzione e spirito
innovativo.
Christoph Willibald Gluck “Orfeo ed Euridice”
Nella prefazione all'"Orfeo ed Euridice, (1762 ) scritta a Vienna in collaborazione con il librettista Ranieri de' Calzabigi, Gluck esplicava la sua poetica espressiva: riportare la musica all'aderenza con il dramma, sfrondandola da orpelli inutili imposti dalla moda e dal divismo dei cantanti; introdurre recitativi ariosi che non interrompevano l'incidere drammatico, mentre le stesse arie dovevano ammantarsi di sobrietà nel canto ed essere strettamente ispirate alla situazione drammatica. Gli anni che hanno preceduto "Orfeo" e quelli immediatamente successivi furono caratterizzati da lavori improntati ad una certa convenzionalità, se si escludono il brillante atto unico "Le cinesi" del 1754 e "Les pelerins de la mecque" del 1764, la prima costruita ancora con numeri chiusi, la seconda in un perfetto stile d' opéra-comique francese. Il 1767 è l'anno di "Alceste", opera nella quale il linguaggio avviato con "Orfeo" trova pieno compimento. L'opera successiva, "Paride ed Elena" del 1770, scritta ancora in collaborazione con Calzabigi, non ebbe un particolare successo, così Gluck decise di recarsi a Parigi dove regnava Maria Antonietta che era stata sua allieva. L'impatto con il mondo musicale parigino portò alla creazione di opere quali "Iphigénie en Aulide" (1774), la revisione in francese di "Alceste" (1776), "Armide" (1777) e "Iphigénie en Tauride" (1779). Questi lavori nacquero però tra aspre polemiche: gli avversari di Gluck (un po' come era avvenuto ai tempi di Rameau) gli opposero l'italiano Niccolò Piccinni (1728-1800) che era diventato celebre con "La buona figliola” (1760). Piccinni, quasi inconsapevolmente, si trovò coinvolto in questa battaglia artistica dalla quale ricevette solo umiliazioni. Anche Gluck, amareggiato inoltre dall'insuccesso della sua ultima opera "Echo et Narcisse" (1779), abbandonò Parigi. Guardando alla produzione parigina di Gluck si vede come a due opere riformate come "Iphigénie en Aulide" e la revisione di "Alceste" segue "Armide" una partitura improntata allo stile della tragédie-lyrique, ispirata in particolare ad un'altra celebre "Armide", quella di Lully. Con "Iphigénie en Tauride", Gluck torna nuovamente sui suoi passi compiendo quello che è il passo decisivo verso la sua riforma dell'opera. Il recitativo è pressoché scomparso ; ora vi sono ampie scene drammatiche, interrotte da ariosi, mentre le arie vere e proprie non hanno più una forma definitiva e sfuggono ad ogni sorta di tipologia; il canto, specie quello di “Ifigenia”, carico di una nobile emotività, si fa espressione di sentimenti di pregnante umanità.