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Quando uno incomincia a parlare di una leggenda rischia sempre di ripetersi e di cadere nella frase fatta.
Tutti gli amatori e appassionati di opera conoscono, anche solo per sentito dire, il nome di Titta Ruffo. Egli fu, non solo un grandissimo cantante (ce n’erano tanti in quell’epoca), ma anche una personalità di straordinaria consistenza anche fuori dalla scena, e quindi merita un posto tutto suo nel firmamento operistico, come si conviene a dei fuoriclasse come lui.
Titta Ruffo, anzi Ruffo Titta, nacque il 9 giugno 1877 da un certo Oreste Titta che faceva il fabbro. Egli era evidentemente il tipico padre padrone dell’ottocento, piuttosto dispotico, visto che impose al figlio il nome del suo defunto cane da caccia. Insomma, per il nostro Ruffo non cominciò proprio bene!
L’incontro con il magico mondo dell’opera, Ruffo lo ebbe nel 1890 quando, appena tredicenne, andò con il fratello ad una delle recite di debutto di Cavalleria Rusticana.
Il nostro raccontò nelle sue memorie, come Gemma Bellincioni, la bravissima protagonista, lo commosse fino al pianto, e come lui, tornato a casa, provò a cantare con l’accompagnamento del fratello, che suonava il flauto, l’aria d’inizio "O Lola". Lì scoprì di avere un dono di Dio, una voce naturalmente bella, che, nonostante l’ora tarda, non disturbò nessuno, visto che i vicini gli gridavano "Bravo!". Fu quello, come lui stesso raccontò, il suo primo successo di cantante.
Quella folgorazione musicale rappresentò un avvenimento straordinario, perché Ruffo era maturato in un ambiente umile, ma forse allora era più facile che ciò accadesse, visto che anche le persone meno abbienti rispettavano la cultura e avevano il gusto del bello. Titta Ruffo racconta in modo davvero avvincente le sue prime vicissitudini: la sua adolescenza trascorsa a lavorare nell’officina del padre, le litigate con quest’ultimo, che come racconta lui stesso era insopportabile. E fra una lite e l’altra, le risse con i ragazzi del riformatorio e le fughe da casa, riuscì, non si sa come, ad avere le energie per studiare una cosa difficile e dispendiosa, dal punto di vista psicofisico, come il canto. Una passione, questa, che veniva alimentata involontariamente dalla presenza in casa come pensionante, di uno studente di canto, un baritono che rispondeva al nome di Oreste Benedetti (mai sentito nominare). Nello stesso periodo (1890/91), grazie al fratello Ettore studente a S. Cecilia, si presentò al Conservatorio per l’esame di ammissione alla classe di canto, che chiaramente andò bene. Ma, poi, avendo aspramente criticato i metodi "bizantini" del suo insegnante, un certo Persichini, fu cacciato e ritornò alla casa del padre. Non fu proprio un ritorno biblico, infatti, dopo l’ennesimo litigio, lasciò la sua casa per tentare la carriera artistica a Milano.
Nella sua nuova città riuscì, con una lettera di raccomandazione, ad avere lezioni gratuite presso il baritono Lelio Casini, grazie al quale, successivamente ebbe la sua prima scrittura, nel ruolo di Araldo, nel Lohengrin al Costanzi di Roma. In seguito fece una lunga gavetta nei teatri minori della Calabria dove formò il suo repertorio, che ai classici del baritono ottocentesco come Verdi, accostava quelli della giovane scuola che allora andava per la maggiore, Puccini, Leoncavallo e Giordano. Bisogna dire che il nostro affrontò il repertorio verista con la massima prudenza, ovvero con le basi del bel canto ottocentesco, e che, a differenza di numerosi suoi colleghi, anche altrettanto celebri, ne rifiutò ogni manierismo dal facile effetto, dando nobiltà di accento anche alle opere che ne sembravano prive (molti dicono che Puccini non sia nobile, ma forse non lo sono molti famosi esecutori o presunti tali).
Comunque il nome di Titta è indiscutibilmente legato ai ruoli verdiani che cantò per tutta la carriera. Ad esempio il Rigoletto, ruolo in cui debuttò nel 1900 per cantarlo fino al 1931.
La sua fama, dal 1900 al 1904, si sparse in tutta Europa culminando con una prestigiosa apparizione al Royal Opera House. In quella occasione, però, subì uno sgarbo talmente grande che nel teatro londinese non ci mise più piede. Egli doveva fare il Rigoletto, e Gilda doveva essere interpretata dalla mitica Nelly Melba (mitica quanto bisbetica ed antipatica, come compagna di lavoro, deve essere stata una disgrazia per tutti i suoi contemporanei), la quale, avendolo sentito nelle prove ed avendo paura del confronto, si rifiutò di cantare con lui, sostenendo che era troppo giovane (la scusa più idiota che abbia mai sentito), e, trincerandosi dietro questa argomentazione un po’ debole, tanto disse e tanto fece, che riuscì a farlo sostituire facendo rientrare nel ruolo di Rigoletto il maturo e raffreddato Antonio Scotti, che, appunto malato, aveva chiesto di essere sostituito da Ruffo. Questo sgarbo il nostro se lo portò legato al dito per anni, infatti, circa sedici anni più tardi, quando ormai era entrato nell’Olimpo del bel canto, si prese la rivincita. In occasione delle recite di Amleto di Thomas, al San Carlo di Napoli, quando la Melba di passaggio a Napoli e in procinto d’imbarcarsi per l’Australia, chiese al sovrintendente del San Carlo di poter prodursi in una serata nel ruolo di Ofelia accanto a Ruffo, egli rispose "Dite alla Melba che è troppo vecchia per cantare con me!".
La sua carriera cominciò a consolidarsi definitivamente nel 1904, quando fece la sua prima ed ultima stagione scaligera (32 recite). Per uno scherzo del destino non fu più chiamato successivamente alla scala, ma forse anche lui non volle tornarci: la sorte e i lutti familiari, anche violenti (l’assassinio del cognato Matteotti), lo convinsero che, dopotutto l’aria d’Italia era diventata per lui troppo pesante da respirare. Dopo la richiamata alle armi e finita la guerra (la prima), si esiliò volontariamente proseguendo la sua carriera artistica totalmente all’estero.
Il 13 dicembre 1920 interpretò la prima dell’Edipo Re di Leoncavallo, opera a lui dedicata. Dal 1921 al 1929 fu scritturato dal Metropolitan e concluse la sua carriera a New York nel biennio ‘31-’32, con alcune recite di Torca, Amleto e un concerto alla Radio City Hall con brani della Carmen. Quindi tornò in Italia e visse semidimenticato, a Firenze, fino al 5 o 6 luglio 1953, quando scomparve. Egli riposa tuttora nel cimitero monumentale di Milano, fra altri leggendari nomi dello spettacolo italiano.
Per chi non lo ha ancora ascoltato è molto difficile capire quanta emozione possano dare ancora i suoi dischi, seppur arcaici. La voce di Titta Ruffo è una delle più fonogeniche che esistano e, anche se la tecnica di allora, forse restituisce solo un riflesso della sua voce, bisogna proprio dire che quel riflesso ruggisce ancora!
Per fortuna, della sua carriera, ci lasciano testimonianza ben 168 facciate a 78 giri, che rispecchiano in toto il suo repertorio, pur mancando di opere complete (non capisco perché, allora, quasi tutti i colossi della registrazione, Columbia, HMV, Odeon, Pathe, preferivano far registrare le opere complete a cantanti mediocri e nessuno abbia mai pensato, per esempio, a un Rigoletto con Ruffo, Caruso e Tetrazzini, allora le tre perle della Victor!).
Le prime registrazioni a noi pervenute sono del 1904 per la casa Pathe (Ruffo nelle sue memorie "La mia parabola" edito da Longanesi, parla di una seduta di registrazione nel 1897, ma a me non risulta). Queste facciate fanno l’effetto che fanno: sono registrazione arcaiche con il sottofondo stile friggitoria e con il buffissimo annuncio all’inizio del brano. Di questi dischi mi piace soltanto "Tu sola a me rimani" da Chatterton di Leoncavallo, dove lo stile del canto si adatta perfettamente alla personalità dell’artista. Ma per i primi capolavori a 78 giri, o quasi (visto che debbono essere suonati a 75!) bisogna aspettare il 1907. Il suo "Largo al factotum" è eccezionale. Nonostante l’impasto della voce, così corpulento, riesce a fare tutti i virtuosismi secondo le esigenze della partitura. Più belle ancora sono le versioni del 1912 HMV e del 1920 Victor, dove è maturato dal punto di vista espressivo, mentre quella del 1929, utilizzata per la colonna sonora di un film, tradisce qualche durezza di emissione, ed i colori vocali non sono più così cangianti.
Titta Ruffo, al secolo Ruffo Cafiero Titta, si spegneva cinquant'anni fa nella sua ultima residenza fiorentina, a seguito di un attacco cardiaco (aveva sempre sofferto di angina pectoris). Taceva così quella voce, tanto appropriatamente designata come "la voce del leone". Arduo compito è certo quello di ricordarne il personaggio senza indulgere alle tentazioni della retorica. Del resto pochi sono stati gli artisti che hanno lasciato una traccia tanto profonda da trasformarsi in autentiche leggende: è accaduto a Caruso, a Chaliapin, alla Callas e, fra le voci di baritono, a Titta Ruffo. Presto spiegate sono le ragioni di tanta fama: l'irruzione di Titta Ruffo nel panorama lirico novecentesco segna una brusca frattura con la tradizione baritonale di fine ottocento, tutta improntata ad un canto nobile ed introspettivo, di squisiti pregi, ma ormai poco in linea con i gusti di un pubblico sempre più proteso alla ricerca di forti emozioni. L'intuizione di Titta Ruffo fu quella di farsi interprete di tali gusti e, sfruttando le proprie doti vocali - forse ad oggi ancora ineguagliate - interpretative e sceniche, forgiare un nuovo ideale di baritono dal canto maschio e vigoroso, da proporre alle platee nell'incipiente nuovo Secolo. Lauri Volpi, celeberrimo tenore, ma anche abile narratore ed acuto storico della vocalità, ha saputo efficacemente descrivere l'importanza del fenomeno Titta Ruffo: "Il canto vellutato di Battistini, De Luca e Stracciari, condotto con sapienza e venato di sfumature interiori, dovette subire una specie di sussulto quando si profilò la sagoma sonora di una voce toscana mordente ed audace, che portò la quotazione dei baritoni al massimo grado della Borsa dei valori teatrali.". Pisano di nascita e di famiglia, classe 1877, egli trascorse la propria gioventù a Roma, dove intraprese lo studio del canto di nascosto dal padre, che lo aveva destinato al mestiere di fabbro. Ma fu a Milano, dopo la rottura col genitore, che il giovane Ruffo riuscì a trovare la propria strada vocale, grazie anche agli insegnamenti di un altro grande pisano, il baritono Lelio Casini. Dal debutto romano nel ruolo di un Araldo nel wagneriano Lohengrin, avvenuto al Teatro Costanzi nel 1898, prese avvio una inarrestabile carriera internazionale, lunga oltre trentacinque anni. Ma forte fu sempre il legame con le proprie origini toscane, che lo porto a più riprese a tornare nella propria città di origine, ad esibirsi sul palcoscenico dell'allora Regio Teatro Nuovo (l'attuale Teatro Verdi). E proprio nella città di Pisa si ricorda la sua ultima apparizione italiana sulle scene, in due storiche recite di un'opera, l'Amleto di Thomas, che contribuì a renderlo celebre per le sue memorabili interpretazioni, delle quali peraltro rimane una significativa traccia discografica, uno dei pochi reperti del suo formidabile genio artistico.
il libretto deve essere uno scheletro capace di ricevere compiutezza artistica e verità psicologica dalla Musica, la quale a sua volta proprio da quelle parole, da quelle situazioni teatrali inevitabilmente deve prendere spunto e vita. (