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Lucia di Lammermoor - Donizetti

03/07/2011, 9:52


Fonte web:
Riccardo Viagrande


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di Gaetano Donizetti costituisce una delle opere esemplari del melodramma romantico italiano, non solo per la musica del compositore bergamasco, ma anche per il libretto che Cammarano trasse dal romanzo di Walter Scott, The Bride of Lammermoor.
La prassi di trarre un soggetto da un’opera letteraria straniera era abbastanza consueta nella librettistica italiana ottocentesca, in quanto in Italia non vi fu la fioritura di una vera e propria narrativa romantica come in Francia, in Inghilterra ed in Germania, per cui era quasi d’obbligo, per il librettista italiano, rivolgersi ai modelli stranieri, tra i quali Schiller, Shakespeare, Hugo; tra questi un ruolo importante fu svolto dallo scrittore inglese Walter Scott, già modello, per il librettista Tottola, della Donna del Lago di Rossini e del Castello di Kenilworth. Certamente, rispetto alle opere dei suoi colleghi, quelle di Walter Scott contribuirono in modo minore alla formazione del repertorio melodrammatico, soprattutto perché ponevano alcune difficoltà dovute essenzialmente all’esigenza di ridurre a dimensioni e tempi scenici gli avvenimenti che lo scrittore inglese aveva narrato in molte pagine; la stesura del libretto d’opera, inoltre, nel nostro Ottocento, poneva alcuni problemi attinenti anche al ruolo che i personaggi dovevano svolgere in base al loro timbro di voce, per cui il tenore, che ama riamato il soprano, doveva sempre rivaleggiare col baritono, mentre il basso si presentava ieratico, solenne.
Immagine
SalvatoreCammarano

Nella riduzione librettistica del romanzo di Scott, Cammarano, quindi, dovette tener conto di tutte queste esigenze che non mancarono di comportare delle notevoli modifiche sia sul piano del sistema dei personaggi che su quello della fabula. Dal punto di vista dei personaggi, infatti, il fiero oppositore all’amore tra Lucia Asthon ed Edgardo di Ravenwood non è più la madre della donna, che, dalle informazioni sparse nell’opera, è morta[1], ma il fratello Enrico, non a caso baritono, che, nella prima scena dell’opera, si presenta minacciando fuoco e fulmini contro l’amore di Lucia per Edgardo. Enrico, infatti, rivolgendosi al basso Raimondo, ieratico sacerdote che cerca di ricondurlo a più miti consigli, risponde altero:

La pietade in suo favore
Miti sensi invan ti detta…
Se mi parli di vendetta
Solo intenderti potrò.
Sciagurati!… il mio furore
Già su voi tremendo rugge…
L’empia fiamma che vi strugge
Io col sangue spegnerò.
(I, 3)
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Cammarano, quindi, trasformò l’Enrico del romanzo, dipinto da Scott come un ragazzino, in un uomo a cui sono affidate le sorti di una famiglia in declino, che ha bisogno di salvare il proprio prestigio, a differenza di Edgardo, che, invece, come afferma lo stesso Enrico, dalle sue rovine / Erge la fronte baldanzosa e ride! (I, 1).
Nella Lucia donizettiana la condizione economica ed il prestigio politico delle due famiglie si presentano totalmente rovesciati rispetto al romanzo di Scott, nel quale è la casata degli Asthon ad avere ancora un ruolo di prestigio; sir William Asthon, lord cancelliere e padre di Lucia, era riuscito, infatti, ad affermare la sua forza ed autorità in una situazione politica estremamente delicata che vedeva vacante il trono di San Giacomo, come avverte lo stesso Scott «In quei giorni non c’era un re in Israele. »

Dopo che Giacomo VI era partito dalla Scozia per assumere la corona d’Inghilterra, più ricca e più potente, esistevano, tra l’aristocrazia scozzese, fazioni contendenti, e a seconda del prevalere di questo o di quell’intrigo alla corte di San Giacomo, i poteri sovrani di delega passavano alternativamente o all’una o all’altra fazione[2].
A questo clima di faziosità fece riferimento anche Cammarano quando, nella seconda scena della seconda parte, Enrico, imponendo a Lucia il sacrificio di sposare Arturo e di rinunciare ad Edgardo, afferma:
Spento è Guglielmo… Ascendere
Vedremo al trono Maria
Prostrata è nella polvere l
La parte ch’io seguìa…
[…]
Dal precipizio
Arturo può sottrarmi,
Sol egli!…

La casata degli Asthon è, nella Lucia donizettiana, quindi, sull’orlo del precipizio, mentre Edgardo si apriva la strada ad una brillante carriera politica che lo avrebbe visto quanto prima in Francia per trattar […] le sorti della Scozia, come egli stesso dichiara nel momento della separazione dall’amata Lucia.
L’assenza del personaggio del Lord Cancelliere nel libretto di Cammarano non solo consentì al librettista di porre a confronto, in un antagonismo classico nel melodramma, il baritono Enrico ed il tenore Edgardo, ma giustifica anche la difficile situazione politica in cui si trovava la casata degli Asthon.
(Fine prima parte)

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Il testo è tratto da Riccardo Viagrande, Musica e poesia arti sorelle, Casa Musicale Eco, Monza, 2005, pp. 21-28.
GBopera ringrazia l’editore che ci ha permesso la pubblicazione online
[1] Nella Parte seconda dell’Atto primo Enrico assicura Arturo sul dolore di Lucia «Dal duolo oppressa e vinta / Piange la madre estinta». Tutte le citazioni del libretto della Lucia di Lammermoor sono tratte da S. Cammarano, Lucia di Lammermoor, in Il teatro italiano V. Il libretto del melodramma dell’Ottocento, tomo primo, a c. di C. Dapino, Torino, Einaudi, 1983.

[2] W. Scott, La sposa di Lammermoor, trad. a c. di B. Onofri, Milano, Garzanti, 1982, p. 21

Re: Lucia di Lammermoor - Donizetti

03/07/2011, 9:53


Fonte web:
Nel libretto di Cammarano il pubblico, rispetto al romanzo di Scott, viene catapultato in medias res, in quanto, come ha notato Portinari, è subito messo al corrente della rivalità fra le due famiglie[1], che si esprime nell’odio di Enrico, esploso in seguito alla notizia dell’amore della sorella per Edgardo. Molte delle vicende narrate da Scott prima del tragico epilogo vengono rievocate da Cammarano in alcuni momenti attraverso narrazioni o brevi accenni fatti dai protagonisti; l’episodio, in cui Lucia viene salvata da Edgardo dalla furia di un toro, viene narrato, nella seconda scena della prima parte, da Normanno ad Enrico, che, nello stesso tempo, viene informato anche degli incontri della sorella con il signore di Ravenswood, mentre la leggenda della fonte, teatro degli incontri tra i due amanti, è narrata da Lucia alla sua damigella Alisa. Nella descrizione di questi fatti è possibile, inoltre, notare alcune differenze tra il modello letterario e la sua riduzione librettistica; nell’episodio del toro, infatti, alla scarna narrazione fatta da Normanno ad Enrico, nella quale non viene fatto alcun cenno alla presenza del padre della donna, riassunta in queste parole

M’udite. Ella sen gìa colà del parco
nel solingo vial dove la madre
giace sepolta… Impetüoso toro
ecco su lei si avventa…
quando per l’aria rimbombar si sente
un colpo e al suol repente
cade la belva.
(I, 2)
corrisponde una pagina ricca di particolari nel romanzo di Scott:
Sembrava inevitabile che il padre o la figlia, o entrambi dovessero cadere vittime dell’incombente pericolo, quando uno sparo dal boschetto vicino arrestò l’avanzata dell’animale. Il tiro era stato così ben diretto, fra la giuntura della spina dorsale e il cranio che la ferita si dimostrò istantaneamente fatale, mentre, se fosse stata inferta in qualsiasi altra parte del corpo, avrebbe difficilmente impedito l’impeto della belva. Con un balzo in avanti ed un terribile muggito, più per la forza d’inerzia dello slancio precedente che per l’azione delle membra, giunse a circa tre metri dall’attonito Cancelliere, dove rotolò sul terreno, ricoperto dal nero sudore della morte e agitato dal tremito delle ultime convulsioni. Lucia giaceva a terra, priva di sensi, inconscia della miracolosa liberazione di cui era stata oggetto. Suo padre era quasi altrettanto fuori di sé, tanto rapido ed inaspettato era stato il passaggio dalla orribile morte che sembrava ormai inevitabile, alla perfetta sicurezza. [2]

Nel romanzo di Scott questo episodio costituisce l’occasione per una forma di riavvicinamento tra la casata dei Ravenswood e quella del Lord Cancelliere, che non avrebbe opposto alcuna resistenza al matrimonio della figlia con il suo salvatore i cui desideri di vendetta erano stati sopiti dalla bellezza della fanciulla. Walter Scott, da questo momento in poi, sembra far intravedere la possibilità di una pace tra le due famiglie, se non fosse per la fiera opposizione della moglie del cancelliere, Lady Asthon, dipinta da Scott come un personaggio dal carattere tanto altero da incutere timore persino al marito. [3]


Nella leggenda della fontana della Sirena,
Cammarano, rispetto al suo modello, eliminò tutti gli elementi soprannaturali riducendo l’omicidio della donna amata da uno dei Ravenswood, avvenuto presso la fontana in questione, teatro degli incontri tra i nostri amanti infelici, in un delitto passionale perpetrato per motivi di gelosia. La narrazione dell’episodio, fatta da Lucia ad Alisa, non è nient’altro che una scarna sintesi, con alcune differenze sostanziali, dell’analogo passo presente nel romanzo di Scott, come è possibile notare dal raffronto tra le due versioni, delle quali quella di Cammarano,

Quella fonte mai,
senza tremar, non veggo … Ah, tu lo sai;
un Ravenswood, ardendo di geloso furor, l’amata donna
colà trafisse; l’infelice cadde nell’onda, ed ivi rimanea sepolta …
(I, 4)

pone l’accento sul carattere iracondo dei Ravenswood, mentre quella del modello inglese[4], popolata da ninfe e da presunte manifestazioni sataniche, rivela il gusto per il soprannaturale e per il mistero tipici di quell’isola, senza togliere a quel luogo il carattere sinistro che promana dalle due versioni.

Un ultimo accenno a quello che potremmo definire l’antefatto della vicenda è presente ancora nella scena successiva che conclude la prima parte dell’opera nella quale Edgardo fa riferimento al giuramento fatto contro la famiglia di Lucia dopo la morte del padre.

In questa scena, che costituisce l’unico momento in cui i due infelici amanti si trovano da soli, Edgardo ci viene presentato non solo all’apice della sua carriera e della sua fortuna politica, in procinto di partire per la Francia per risolvere delle delicate questioni diplomatiche, ma anche tenero amante di Lucia, con la quale si scambia un pegno di amore e di fedeltà.
Durante l’assenza di Edgardo, che, nel romanzo di Scott, è giustificata da un invito di un nobile amico del nostro protagonista nella sua residenza ad Edimburgo, vengono accelerati i preparativi delle nozze con Arturo Buklaw, unica persona in grado di risollevare, nelle intenzioni di Enrico, le sorti della sua famiglia. Come nel romanzo di Scott, anche nel libretto di Cammarano la situazione precipita proprio il giorno delle nozze con l’irruzione di Edgardo nel castello degli Asthon dove era stato firmato da poco il contratto che avrebbe legato per sempre Lucia ed Arturo; la reazione furibonda di Edgardo genera la risposta immediata di Enrico, che sfida l’odiato nemico e sostituisce il fratello Douglas Asthon del romanzo. Da questo momento Cammarano seguì la successione degli eventi del romanzo con Lucia che perde il lume della ragione ed uccide lo sfortunato consorte.
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che questa non fosse una calunnia. [...] L’interesse – interesse della sua famiglia, se non unicamente il proprio – appariva chiaramente come il movente delle sue azioni. [...] Era stato notato ed accertato che nella maggior parte delle sue cortesie e dei suoi com-plimenti, lady Ashton non perdeva mai di vista il suo obiettivo, come il falco che alle sue evoluzioni nell’aria, coi suoi occhi penetranti persegue sempre la preda prescelta; in conseguenza di ciò un certo dubbio e un certo sospetto caratterizzavano i sentimenti con cui i suoi pari ricevevano le sue attenzioni. […] A quel che si diceva, anche suo marito, sulle cui fortune il suo ingegno e la sua accortezza avevano esercitato una così energica influenza, la considerava con rispettoso timore».
[1] Ivi, pp. 53-54: «La tradizione, che ha sempre lavorato, almeno in Scozia, a fiorire con un racconto leggendario un luogo già di per sé interessante, aveva attribuito a questa fontana una causa di speciale venerazione. Una bella e giovane donna aveva incontrato uno dei signori di Ravenswood che andava a caccia in quei pressi, e come una seconda Egeria, si era accattivata l’affezione del Numa feudale. Si incontrarono, in seguito, di frequente, e -sempre al tramonto, avendo gli incanti della ninfale natura di lei completato la conquista che la sua bellezza aveva iniziato, tanto più che il mistero aggiungeva, per entrambi, sapore all’intrigo. Ella appariva e spariva sempre vicino alla fontana, con la quale, perciò, il suo amante giudicò che avesse inesplicabili rapporti. E poneva anche alcune restrizioni ai loro incontri che avevano, quindi, ancor sapore di mistero. Dovevano incontrarsi solo una volta alla settimana – il venerdì era il giorno fissato – e dovevano assolutamente separarsi non appena la campana della cappella dell’eremitaggio nel bosco vicino, ormai ridotta un rudere, batteva le ore del vespro. In confessione, il barone di Ravenswood mise l’eremita a conoscenza dei suo singolare amore e padre Zaccaria tirò l’inevitabile e ovvia conclusione, che cioè il suo signore si era impigliato nelle reti di Satana con pericolo sia per l’anima che per il corpo. Descrisse al barone questi pericoli con tutta la forza della retorica monastica e dipinse con i colori più spaventosi la vera natura e la persona dell’apparentemente bella naiade che non esitò a denunciare come un emissario del regno delle tenebre. L’innamorato ascoltò con ostinata incredulità e fu solo in seguito alle insistenze dell’anacoreta che acconsentì a sottoporre ad una prova l’essere e la condizione della sua amata; a tale scopo aderì alla proposta di padre Zaccaria di far suonare i vespri mezz’ora più tardi del solito alla loro prossima intervista. […] All’ora stabilita gli amanti si incontrarono e l’intervista si protrasse oltre l’ora in cui essi usualmente si separavano per il ritardo con cui il monaco suonò l’abituale coprifuoco. Nessun cambiamento si verificò nella forma esteriore della ninfa; ma, non appena le ombre allungantisi la fecero consapevole che l’ora abituale dei vespri era passata, si staccò dalle braccia del suo amante con un urlo di disperazione e dicendogli addio per sempre si tuffò nella fontana e sparì ai suoi sguardi. Le bolle d’acqua provocate dal suo inabissarsi, quando salirono alla superficie erano rosse di sangue, da cui il barone fu portato a credere che la sua insana curiosità aveva determinato la morte di quell’essere misterioso e affascinante».
( Fine seconda parte)

[1] F. Portinari, Pari siamo! Io la lingua, egli ha il pugnale. Storia del melodramma attraverso i suoi libretti, Torino, E.D.T., 1981 p. 106.

[2] W. Scott, Op. cit., p. 52.

[3] Ivi, p. 23:«Lady Ashton era di una famiglia più nobile di quella del suo consorte, vantaggio di cui non mancava di avvalersi all’estremo per mantenere – ed eludere – l’influenza di suo marito sugli altri e anche la propria su di lui, a meno che questa non fosse una calunnia. [...] L’interesse – interesse della sua famiglia, se non unicamente il proprio – appariva chiaramente come il movente delle sue azioni. [...] Era stato notato ed accertato che nella maggior parte delle sue cortesie e dei suoi com-plimenti, lady Ashton non perdeva mai di vista il suo obiettivo, come il falco che alle sue evoluzioni nell’aria, coi suoi occhi penetranti persegue sempre la preda prescelta; in conseguenza di ciò un certo dubbio e un certo sospetto caratterizzavano i sentimenti con cui i suoi pari ricevevano le sue attenzioni. […] A quel che si diceva, anche suo marito, sulle cui fortune il suo ingegno e la sua accortezza avevano esercitato una così energica influenza, la considerava con rispettoso timore».

[4] Ivi, pp. 53-54: «La tradizione, che ha sempre lavorato, almeno in Scozia, a fiorire con un racconto leggendario un luogo già di per sé interessante, aveva attribuito a questa fontana una causa di speciale venerazione. Una bella e giovane donna aveva incontrato uno dei signori di Ravenswood che andava a caccia in quei pressi, e come una seconda Egeria, si era accattivata l’affezione del Numa feudale. Si incontrarono, in seguito, di frequente, e -sempre al tramonto, avendo gli incanti della ninfale natura di lei completato la conquista che la sua bellezza aveva iniziato, tanto più che il mistero aggiungeva, per entrambi, sapore all’intrigo. Ella appariva e spariva sempre vicino alla fontana, con la quale, perciò, il suo amante giudicò che avesse inesplicabili rapporti. E poneva anche alcune restrizioni ai loro incontri che avevano, quindi, ancor sapore di mistero. Dovevano incontrarsi solo una volta alla settimana – il venerdì era il giorno fissato – e dovevano assolutamente separarsi non appena la campana della cappella dell’eremitaggio nel bosco vicino, ormai ridotta un rudere, batteva le ore del vespro. In confessione, il barone di Ravenswood mise l’eremita a conoscenza dei suo singolare amore e padre Zaccaria tirò l’inevitabile e ovvia conclusione, che cioè il suo signore si era impigliato nelle reti di Satana con pericolo sia per l’anima che per il corpo. Descrisse al barone questi pericoli con tutta la forza della retorica monastica e dipinse con i colori più spaventosi la vera natura e la persona dell’apparentemente bella naiade che non esitò a denunciare come un emissario del regno delle tenebre. L’innamorato ascoltò con ostinata incredulità e fu solo in seguito alle insistenze dell’anacoreta che acconsentì a sottoporre ad una prova l’essere e la condizione della sua amata; a tale scopo aderì alla proposta di padre Zaccaria di far suonare i vespri mezz’ora più tardi del solito alla loro prossima intervista. […] All’ora stabilita gli amanti si incontrarono e l’intervista si protrasse oltre l’ora in cui essi usualmente si separavano per il ritardo con cui il monaco suonò l’abituale coprifuoco. Nessun cambiamento si verificò nella forma esteriore della ninfa; ma, non appena le ombre allungantisi la fecero consapevole che l’ora abituale dei vespri era passata, si staccò dalle braccia del suo amante con un urlo di disperazione e dicendogli addio per sempre si tuffò nella fontana e sparì ai suoi sguardi. Le bolle d’acqua provocate dal suo inabissarsi, quando salirono alla superficie erano rosse di sangue, da cui il barone fu portato a credere che la sua insana curiosità aveva determinato la morte di quell’essere misterioso e affascinante».

Re: Lucia di Lammermoor - Donizetti

03/07/2011, 9:54




A differenza del romanzo di Scott, tuttavia, il duo Cammarano-Donizetti costruì una scena nella quale viene ritratta la follia di una Lucia, la cui mente è occupata oltre che da terribili fantasmi anche da rievocazioni dei momenti belli passati insieme con il suo Edgardo. In questa scena della follia, giudicata dalla critica musicale, insieme a quella della follia di Elvira dei Puritani di Bellini, come una delle più grandi scritte nel nostro teatro d’opera ottocentesco, presenta un interessante carattere evocativo accentuato dalla scelta di Donizetti di riprendere alcuni temi caratteristici dell’amore di Lucia per Edgardo; ecco, infatti, nella parte iniziale, declamato dal primo flauto, il tema di Regnava nel silenzio (Es. 1) seguito da Verrano a te sull’aure, intonato dal flauto e dal clarinetto all’ottava (Es. 2).
Es. 1 e 2


Da parte sua Edgardo, dopo esser stato sfidato da Enrico a duello, è deciso a farsi uccidere dal suo avversario, in quanto, per il nostro protagonista, la vita / è orrendo peso!… L’universo intero / è un deserto […] senza Lucia. Proprio in quel momento si sente dal Castello di Lammermoor un canto funesto degli abitanti del paese scozzese, che fa presagire l’imminente morte della donna. Edgardo, allora, messo al corrente della morte dell’amata Lucia da Raimondo, si uccide trafiggendosi con un pugnale nella speranza che Dio possa riunirlo alla donna amata in un imene celestiale. Su questo punto il libretto di Cammarano presenta un netto allontanamento dal suo modello inglese, in quanto nel romanzo Edgardo scompare misteriosamente correndo sul suo cavallo, mentre sta per recarsi al duello con Douglas Asthon, come si può notare da quanto scrisse Scott:
Il colonnello Ashton, ansioso di vendetta, stava già sul campo e lo percorreva a lunghi passi, guardando con impazienza verso la torre, per scorgere l’arrivo del suo antagonista. Il sole si era ormai levato e il suo ampio disco appariva a levante sul mare; cosicché egli poté facilmente distinguere un uomo a cavallo che galoppava verso di lui ad una velocità che denotava un’impazienza pari alla sua. Improvvisamente la figura scomparve, come se fosse svanita nell’aria. Si stropicciò gli occhi come chi fosse stato testimone di una apparizione, poi si affrettò verso quel luogo dove incontrò Balderstone che veniva dalla direzione opposta. Non fu possibile scorgere traccia alcuna né del cavallo né del cavaliere[1].

Nel romanzo di Scott Edgardo scompare, quindi, senza lasciare alcuna traccia in una folle e veloce corsa sul suo cavallo; al contrario la morte descritta da Cammarano, nella sua Lucia, presenta un carattere più realistico accentuato anche dalla musica che non solo sottolinea la situazione, ma interviene con il primo violoncello integrando la melodia di un Edgardo, che non riesce a completare il suo ultimo disperato canto d’amore, nel quale, rivolgendosi all’amata Lucia, si augura:
Se divisi fummo in terra
ne congiunga il Nume in ciel.
Cammarano, sostituendo alla disperata e misteriosa morte di Edgardo, descritta nel romanzo inglese, un’altra più romantica in cui l’amore supera la morte, assolutizzò e spritualizzò il sentimento amoroso tanto da superare i limiti imposti dalle categorie spazio-temporali.


( Fine della terza e ultima parte )


[1] Ivi, p. 366.
Il testo è tratto da Riccardo Viagrande, Musica e poesia arti sorelle, Casa Musicale Eco, Monza, 2005, pp. 21-28.

Re: Lucia di Lammermoor - Donizetti

03/07/2011, 9:56


....
XV

La folla aspettava contro il muro, schierata con ordine entro le transenne. All'angolo delle strade vicine, giganteschi manifesti ripetevano in caratteri barocchi: Lucia di Lammermoor... Lagardy... Opéra... ecc. Era bel tempo e faceva caldo; il sudore scorreva fra i riccioli, nessun fazzoletto da tasca era al suo posto, ma tutti asciugavano fronti arrossate, e per certi momenti un vento tiepido proveniente dal fiume agitava un poco i lembi delle tende di traliccio sospese davanti alle porte dei caffè. Un poco più in basso, tuttavia, si era rinfrescati da una corrente d'aria gelida che sapeva di sego, di cuoio, e di olio. Era l'effluvio che esalava da Rue des Charrettes, piena di grandi botteghe nere nelle quali i barili venivano fatti rotolare.
Emma, per tema di sembrare ridicola, prima di entrare volle fare una passeggiata al porto, e Bovary tenne prudentemente appoggiata al ventre una mano nella tasca dei pantaloni, dove c'erano i biglietti.
Quando furono nel vestibolo Emma fu presa dal batticuore. Sorrise senza volerlo, di vanità, vedendo la folla che si precipitava a destra, nell'altro corridoio, mentre lei saliva lo scalone dei primi posti. Provò un piacere infantile spingendo con la mano le larghe porte imbottite; aspirò a pieni polmoni l'odore polveroso dei corridoi, e, quando si fu seduta nel palco, si drizzò sulla vita con la disinvoltura di una duchessa.
La sala incominciava a riempirsi, i binocoli venivano tolti dagli astucci, e gli abbonati, scorgendosi di lontano, si facevano cenni di saluto. Venivano a ricrearsi con le belle arti dopo le preoccupazioni degli affari, ma senza dimenticarli; infatti discorrevano ancora di cotoni, di alcool puro, o di indaco. Si vedevano teste di vecchi, inespressive e pacifiche, bianche di colorito e di capelli, simili a medaglie d'argento appannate da una patina plumbea. I bellimbusti si pavoneggiavano in platea ostentando nell'apertura dei panciotti cravatte rosa o verde mela; e la signora Bovary li ammirava dall'alto, mentre appoggiavano sui bastoncelli dal pomo dorato il palmo disteso dei loro guanti gialli.
Intanto si accesero le luci dell'orchestra. Il lampadario discese dal soffitto, riversando con lo scintillio delle sfaccettature del cristallo una subitanea gaiezza nella sala. Poi entrarono i musicisti, uno dopo l'altro, e da principio vi fu un gran baillamme di suoni, di bassi ronfanti, di violini stridenti, di squilli di trombe e di pigolii di flauti e pifferi. Si sentirono tre colpi sul palcoscenico, i timpani cominciarono a rullare, gli ottoni lanciarono degli accordi, e il sipario, alzandosi, mostrò un paesaggio.

Rappresentava un crocevia in un bosco, a sinistra una fontana era ombreggiata da una quercia. Alcuni contadini e alcuni signorotti di campagna con la caratteristica sciarpa scozzese sulla spalla, cantavano insieme una canzone di caccia; sopraggiunse un capitano che invocava l'angelo del male levando al cielo le braccia; comparve un altro personaggio; se ne andarono tutt'e due e i cacciatori ripresero a cantare.
Emma si risentiva immersa nell'atmosfera delle sue letture giovanili, in pieno Walter Scott. Le sembrava di sentire, attraverso la nebbia, il suono delle cornamuse scozzesi echeggiare sulle brughiere. Del resto, il ricordo del romanzo le facilitava la comprensione del libretto, ed Emma seguiva l'intreccio frase per frase mentre inafferrabili pensieri le tornavano alla mente, subito dispersi da raffiche di musica. Si lasciava cullare dalla melodia e si sentiva vibrare in tutto l'essere suo come se i nervi fossero le corde stesse dei violini sulle quali passavano gli archetti. Non aveva occhi abbastanza per contemplare i costumi, gli scenari, i personaggi, gli alberi dipinti che tremavano quando qualcuno camminava sulla scena, i berretti di velluto, i mantelli, le spade, tutte quelle invenzioni fantastiche le quali si muovevano nell'armonia della musica come nell'atmosfera di un altro mondo. Ma una giovane donna venne avanti e gettò una borsa a uno scudiero dall'abito verde. Rimase sola e si sentì allora un flauto che imitava il mormorio di una fonte o il cinguettare degli uccelli. Lucia incominciò con aria austera la cavatina in sol maggiore; descriveva le sue pene d'amore ed esprimeva il desiderio di poter volare. Anche Emma avrebbe voluto fuggire dalla vita, andarsene in un abbraccio. D'improvviso Edgardo-Lagardy apparve.
Aveva quel meraviglioso pallore che conferisce qualcosa della maestà del marmo alle stirpi ardenti del mezzogiorno. Il suo torace vigoroso era stretto in una giubba di un colore bruno, uno stiletto cesellato gli batteva sulla coscia sinistra: si guardava intorno con sguardi pieni di languore e scopriva in un sorriso i denti bianchi. Si diceva che una principessa polacca, ascoltandolo cantare una sera, sulla spiaggia di Biarritz, dove lui riparava imbarcazioni, se ne fosse innamorata. Si era rovinata per lui. E lui l'aveva piantata per correre dietro ad altre donne, e questa celebrità sentimentale era utile alla sua fama di artista. L'accorto commediante non faceva mai mancare, in tutti gli annunci pubblicitari che lo riguardavano, una frase poetica sul fascino della sua persona e sulla sensibilità del suo animo. Una bella voce, un'imperturbabile sicurezza di sé, più temperamento che intelligenza, più enfasi che lirismo, finivano per rivalutare questa ammirevole natura di ciarlatano nella quale si univano alcune caratteristiche del barbiere e del torero.
Fin dalla prima scena suscitò entusiasmo. Prendeva Lucia fra le braccia, la lasciava, tornava vicino a lei, sembrava disperato: aveva accessi di collera seguiti da sospiri elegiaci di una dolcezza infinita e le note sfuggivano dalla gola nuda piene di singhiozzi e di baci. Emma si protendeva per vederlo, graffiando con le unghie il velluto del palco. Si riempiva il cuore con questi melodiosi lamenti che si trascinavano sull'accompagnamento dei contrabbassi come grida di naufraghi nel tumulto di una tempesta. Riconosceva tutte le prostrazioni e le angosce che per poco non l'avevano fatta morire. La voce della cantante era per lei soltanto l'eco della propria coscienza, e l'illusione scenica che l'affascinava le sembrava addirittura qualcosa della sua vita. Mai nessuno al mondo l'aveva amata di un amore simile; il suo amante non piangeva come Edgardo, l'ultima sera al chiaro di luna, quando si erano detti: "A domani, a domani!.." Nella sala scrosciarono gli applausi; la scena finale fu ripetuta daccapo; i due cantanti parlarono di fiori sulle loro tombe, di giuramenti, di esili, di fatalità, di speranze, e quando lanciarono l'addio finale Emma gettò un grido acuto che si confuse con la vibrazione degli ultimi accordi.
"Perché" domandò Bovary "quel signore la perseguita?"
"Ma no," rispose lei "è il suo amante."
"Eppure giura di vendicarsi sulla sua famiglia, mentre quell'altro, quello che era venuto prima, diceva: "Amo Lucia e sono convinto di esserne riamato". E d'altra parte è andato via sottobraccio al padre di lei. Perché è suo padre, vero, quello piccolo, brutto, con la piuma di gallo sul cappello?"
Nonostante le spiegazioni di Emma , dopo il duetto recitativo nel quale Gilberto espone i suoi nefandi intenti al padrone Ashton, vedendo il falso anello di fidanzamento destinato a ingannare Lucia, Charles credette che fosse un pegno d'amore inviato da Edgardo. Confessò, del resto di non capire la storia per colpa della musica che non gli lasciava sentire le parole.
"Non importa," disse Emma "taci!"
"Ma vorrei" continuò lui, chinandosi verso la moglie "rendermi conto, capisci?"
"Taci, taci!" fece lei con impazienza.
Lucia veniva avanti, sostenuta in parte dalle ancelle, con una corona d'arancio sui capelli, più pallida del suo abito di raso bianco. Emma ricordò il giorno del suo matrimonio; si rivedeva laggiù, sul viottolo in mezzo al grano, mentre andavano verso la chiesa. Perché mai, anche lei, come Lucia, non aveva resistito, supplicato? Era contenta, invece, senza rendersi conto dell'abisso in cui si stava gettando... Ah! Se nella freschezza della sua avvenenza, prima della contaminazione del matrimonio e la disillusione dell'adulterio, avesse potuto appoggiare la propria vita a un cuore grande e forte, allora la virtù, la tenerezza, le voluttà e il dovere sarebbero divenuti una cosa sola, e mai avrebbe potuto rinunciare a una felicità così alta. Ma una tale felicità, senza dubbio, non era altro che una menzogna immaginata per rendere impossibili i desideri. Conosceva adesso la meschinità delle passioni esasperate dall'arte. Sforzandosi di indirizzare altrove i propri pensieri, Emma volle scorgere in questa replica dei suoi affanni soltanto una fantasia plastica fatta per ingannare gli occhi, e addirittura sorrideva dentro di sé con sprezzante pietà, quando in fondo al palcoscenico, sotto una portiera di velluto, apparve un uomo dal mantello nero.
Fece cadere con un gesto il grande cappello alla spagnola, e subito gli strumenti e i cantanti attaccarono il sestetto. Edgardo, acceso dal furore, dominava tutti gli altri con la voce squillante; Ashton gli lanciava provocazioni mortali su note basse; Lucia emetteva il suo acuto lamento, Arturo modulava per suo conto su un tono medio; e la bassa figura del pastore ronfava come un organo, mentre le voci femminili, ripetendo le sue parole, riprendevano il motivo deliziosamente, in coro. Stavano tutti allineati e gesticolavano; e la collera, la vendetta, la gelosia, il terrore, la misericordia e lo stupore uscivano, volta a volta, dalle loro bocche socchiuse. L'amante oltraggiato brandiva la spada sguainata: il solino di merletto andava su e giù a scatti a seconda dei movimenti del petto, e il protagonista si spostava a destra e a sinistra a grandi passi, facendo risonare sul tavolato gli speroni dorati degli stivali flosci che si aprivano a imbuto sulla caviglia. "Doveva poter disporre", pensò Emma, "di una possibilità d'amare inesauribile, per riversarne sulla folla una piena così imponente." Tutte le velleità denigratorie svanirono davanti alle poetiche seduzioni di quella interpretazione, e, attirata verso l'uomo dalla finzione del personaggio, ella cercò di immaginare la vita, una vita clamorosa, straordinaria, splendida, che anche lei avrebbe potuto vivere se soltanto il caso l'avesse voluto. Si sarebbero conosciuti e si sarebbero amati! Con lui avrebbe viaggiato di capitale in capitale attraverso tutti i regni d'Europa, dividendo le fatiche e i successi, raccogliendo i fiori che gli avrebbero gettato, ricamando ella stessa i costumi, poi, ogni sera, dal fondo di un palco, dietro una grata dorata, avrebbe accolto con avidità le effusioni di quell'anima che avrebbe cantato soltanto per lei; egli l'avrebbe guardata dalla scena, mentre cantava. Si sentì presa da una follia: Lagardy la guardava, ne era sicura! Sentì il desiderio di gettarglisi fra le braccia, per rifugiarsi nella sua forza come nell'incarnazione stessa dell'amore, e di dirgli in un grido: "Rapiscimi! Portami con te! Fuggiamo! A te, a te tutti i miei ardori, tutti i miei sogni!"
Calò il sipario.
L'odore del gas si mescolava all'alito di tutte quelle persone, l'aria smossa dai ventagli rendeva l'atmosfera ancora più soffocante. Emma volle uscire; la folla ingombrava i corridoi ed ella ricadde sulla poltrona con palpitazioni che le toglievano il respiro. Charles, temendo di vederla svenire, corse al caffè del teatro a prenderle un bicchiere di orzata.

Re: Lucia di Lammermoor - Donizetti

03/07/2011, 9:56



Finale del secondo atto ("T'allontana sciagurato...").

Donizetti - Lucia di Lammermoor
Anna Moffo
Carlo Bergonzi
Mario Sereni
Ezio Flagello
Georges Pretre conducting the RCA Italiana Opera Orchestra and Chorus.
1966
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EDGARDO
(Chi mi frena in tal momento?...
Chi troncò dell’ire il corso?
Il suo duolo, il suo spavento
Son la prova d’un rimorso!...
Ma, qual rosa inaridita,
Ella sta fra morte e vita!...
Io son vinto... son commosso...
T’amo, ingrata, t’amo ancor! )

LUCIA
(Io sperai che a me la vita
(riavendosi)
Tronca avesse il mio spavento...
Ma la morte non m’aita...
Vivo ancor per mio tormento! –
Da’ miei lumi cadde il velo...
Mi tradì la terra e il cielo!...
Vorrei pianger, ma non posso...
Ah, mi manca il pianto ancor! )

ARTURO, RAIMONDO, ALISA, NORMANNO, CORO
(Qual terribile momento!...
Più formar non so parole!...
Densa nube di spavento
Par che copra i rai del sole! –
Come rosa inaridita
Ella sta fra morte e vita!...
Chi per lei non è commosso
Ha di tigre in petto il cor.)

ENRICO, ARTURO, NORMANNO, CAVALIERI
T’allontana sciagurato...
O il tuo sangue fia versato...


EDGARDO

Morirò, ma insiem col mio
Altro sangue scorrerà.

RAIMONDO

Rispettate, o voi, di Dio la tremenda maestà.
In suo nome io vel comando,
Deponete l’ira e il brando...
Pace pace... egli abborrisce
L’omicida, e scritto sta:
Chi di ferro altrui ferisce,
Pur di ferro perirà.


ENRICO

Ravenswood in queste porte
Chi ti guida?

EDGARDO
(altero)
La mia sorte,
Il mio dritto... sì;
Lucia La sua fede a me giurò.

RAIMONDO
Questo amor per sempre obblia;
Ella è d’altri!...

EDGARDO
D’altri!... ah! no.

RAIMONDO
Mira.


EDGARDO

Tremi!... ti confondi! Son tue cifre?
A me rispondi:
Son tue cifre?

LUCIA

Sì...

EDGARDO
Riprendi Il tuo pegno, infido cor.
(le rende il di lei anello)
Il mio dammi.

LUCIA
Almen...

EDGARDO
Lo rendi.
Hai tradito il cielo, e amor!
Maledetto sia l’istante
Che di te mi rese amante...
Stirpe iniqua... abbominata Io dovea da te fuggir!...
Ah! di Dio la mano irata
Ti disperda...

ENRICO, ARTURO, NORMANNO, CAVALIERI
Insano ardir!... mi
Esci, fuggi il furor che accende ne
Solo un punto i suoi colpi sospende...
Ma fra poco più atroce, più fiero
Sul suo capo abborrito cadrà...
Sì, la macchia d’oltraggio sì nero
Col tuo sangue lavata sarà.

EDGARDO
(gettando la spada,
ed offrendo il petto a’ suoi nemici)
Trucidatemi, e pronubo al rito
Sia lo scempio d’un core tradito...
Del mio sangue bagnata la soglia
Dolce vista per l’empia sarà!...
Calpestando l’esangue mia spoglia
All’altare più lieta se ne andrà!

LUCIA
(cadendo in ginocchio)
Dio lo salva... in sì fiero momento
D’una misera ascolta l’accento...
È la prece d’immenso dolore
Che più in terra speranza non ha...
E l’estrema domanda del core,
Che sul labbro spirando mi sta!

RAIMONDO, ALISA, DAME
Infelice, t’invola... t’affretta...
(a Edgardo)
I tuoi giorni... il tuo stato rispetta.
Vivi... e forse il tuo duolo fia spento:
Tutto è lieve all’eterna pietà.
Quante volte ad un solo tormento
Mille gioie succeder non fa!
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